Dannati
vecchi tempi, tempi in cui integrazione, esotismo,
multiculturalità erano una risorsa. Tempi in
cui l’Europa e il mondo applaudivano l’extracomunitario
della musica. Il più geniale. Il chitarrista
Django Reinhardt (1910-1953), è stato lo zingaro
più famoso del Novecento. E’ stato il
musicista simbolo per la generazione degli zazou,
i talebani dello swing, gli intellettuali parigini
che si riunivano come carboneria nelle cave, i locali
sotterranei dove potevi ascoltare Reinhardt e il suo
quintetto, che si fregiava di un altro emigrante di
lusso, Stephane Grappelli, violinista sublime e maestro
di buone maniere per Django, che fino alla fine si
ostinò a non voler scrivere, neanche la propria
firma.
Incorrotto, il mito di Django non è mai stato
macchiato dall’infamia del razzismo. Anche i
nazisti ci hanno provato, ma Django è rimasto
una monade musicale che non può essere disgiunta
dalla sua gente, dalla sua tradizione, da tutto quello
che la comunità manouche rappresenta.
Manouche, zingari, gypsy. L’etimologia inglese
è buffa: gipsy viene da Egypt, perché
gli zingari vennero confusi per carnagione e tratti
somatici con gli abitanti del Nilo, devoti ad Anubis
e Cleopatra. E invece questo popolo indiano più
vecchio del mondo portò dall’Asia un
immane precipitato culturale, frutto di secoli di
stratificazione.
Django
aveva la faccia e i modi di un visir, baffi ben arrotati
e una mano con due sole dita a potersi muovere sulla
tastiera della chitarra. Il resto della mano era andata
in fumo per motivi di casta, motivi zingari. La storia
è strappalacrime, ed è degna del miglior
Jacques Demy: Django era un banjoista giovane e scavezzacollo,
passava le serate nelle bettole di Port de Clignancourt,
tornava tardi, tardissimo, chiedeva ad un taxi di
riportarlo nel suo campo, vicino allo sprofondo della
cité zingara, un accampamento, una bidonville,
roulotte e caravan. In una di queste stamberghe la
moglie di Django dormiva, per non svegliarla Reinhardt,
che intanto il suo banjo lo aveva scordato nel taxi,
con le mani libere si faceva largo nella roulotte,
cercando una candela, trovandola, cadendoci sopra.
I fiori di cellophane messi lì in onore alla
patrona iniziarono a prendere fuoco. Mise in salvo
sua moglie, lui si riparò sotto una coperta.
La sua mano tenne stretta la coperta, troppo. Tanto
che tutta la mano bruciò. Zingaro e handicappato,
ci mancava pure questa, la nostra società avrebbe
Django confinato ad un vitalizio, il comune gli avrebbe
regalato un ascensore o un tendalino per le estati
afose nella roulotte. E invece Django Reinhardt è
rinato e al posto di un banjo sordo e pesante è
passato alla chitarra. Un miracolo inspiegabile, la
sua mano avvizzita si fece complice di un’artigianato
musicale sublime: gli accordi che gli ingolfano la
testa, tutta la musica, si concentra su due simulacri
di dita scampate a un falò.
Qui
inizia la leggenda. Django a vederlo nei filmati d’epoca
commuove, ma non è un frignare di pietà.
E’ qualcosa che ha a che fare con un orgoglio
collettivo, che esonda da categorie razziali e scemenze
etniche. Lo guardi nei filmati che ciondola avanti
e dietro, come un cantore di sinagoga, che guarda
il pubblico con gli occhi di uno che è appena
arrivato in un bordello, palpebre semichiuse fra divinazione,
pathos e sonno.
Quei tempi di solare, indisturbato, clamoroso successo
non svanirono, anzi più Django se la tirava
e più suonava. Persino in America, lui zingaro,
nomade e quasi mendicante si permise di far valere
il proprio cipiglio tzigano: arrivò in ritardo
alla Carnegie Hall, il tempio della musica, arrivò
senza chitarra, convinto che un po’ tutti avrebbero
fatto a gara per regalargliene una. Ma New York non
era Parigi.
Poi quell’insolenza, temperata dal tempo, pian
piano lo trasforma in un animale da sottobosco, rintanato
in una roulotte in riva al fiume. Questa volta a dipingere.
Donne nude, cosce, labbra, braccia, caviglie, particolari
seduttivi. Il popolo Rom, devoto e a modo suo bigotto,
non gradisce. Lui se ne infischia. Dei suoi quadri
non si è saputo più nulla, qualcuno
giura fossero belli come la sua musica.
L’espressionismo di un popolo tutto concentrato
in note o in grumi di colore, non è poi tanto
importante. Se ne morì, Django, solo e malinconico,
poco più di cinquant’anni fa, lasciando
ai suoi eredi zingari una musica profondamente mutata,
divenuta orgogliosa delle proprie radici. Oggi una
schiera di impetuosi cloni recupera la musica manouche
con l’abilità delle scimmie che usano
il pallottoliere. Con dieci dita non riescono a fare
quello che Reinhardt faceva con due.
L’eredità di Django è svanita,
come quel sogno di integrazione che la Francia coltivò
prima dell’occupazione. Con il papillon e i
baffetti, con l’occhio cinico, lo sguardo clinico,
con quella mano storpia, quella brillantina: bisogna
ricordare Django Reinhardt così. Eroi così
oggi starebbero dentro per ricettazione. Di poesia.
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