Di Lars von Trier, tanto insofferente delle regole
(fin nell’aggiunta del ‘von’ all’originale
cognome) da fare della ribellione, della provocazione
e del ribaltamento lo stilema della sua produzione,
si ricorda soprattutto Le Onde del Destino,
gran premio della giuria a Cannes ’96, costruito
come Dogville con cinepresa a spalla e poderosa
fotografia (all’epoca il grande Robby Muller).
Che l’autore sia rimasto fin troppo poco fedele
in passato, e soprattutto in questo film, al suo stesso
manifesto Dogma 95 (documento a favore della spontaneità
e verginità del mezzo espressivo) è
altro elemento biografico interessante per gli amanti
delle indagini psicologiche sugli autori. Ma Dogville
merita la visione oltre la biografia sedicente provocatoria
dell’autore, pur con i suoi limiti che emergono
soprattutto nel finale, inutilmente filosofico e,
per questo, traditore della stessa intenzione dell’autore
che intendeva farsi coerente di una nuova trovata
espressiva definita da lui stesso ‘fusionnel’,
cioè mescolanza artistica di cinema, teatro
e letteratura.
La suggestione del film nasce dall’impianto
scenico teatrale (su cui aleggia l’ombra di
Brecht, oltre che nella scansione scenica, nell’ispirazione
dichiarata dall’autore alla celebre canzone
“Jenny dei pirati”), dalla lavorazione
manuale della cinepresa e dalla stilizzazione di ambienti
e personaggi che pongono il dramma sotto il microscopio
di un vero e proprio laboratorio. Nulla perciò
di spontaneo ma tutto minuziosamente confezionato.
Film quindi con elementi di coraggio, non solo per
forma, ma perché pone su zone di confine impalpabili
il bene e il male, l’arroganza di chi uccide
e di chi perdona, la morale qualunque di un qualunque
villaggio con quella strutturata nel verso del potere
delle gang organizzate.
Altra suggestione del film è l’interpretazione
maiuscola di una Kidmann che quasi oscura grandi solisti
come Ben Gazzara, James Caan, Lauren Bacall, quasi
sprecati in ruoli da caratteristi ai quali donano
interpretazioni professionali peraltro ineccepibili.
Probabilmente il film avrebbe trovato la sua identità
anche con nomi meno altisonanti, tanto è forte
la messinscena teatrale e il dramma che, nelle sue
linee più evidenti legate ai meccanismi dell’ipocrisia
sociale, ricorda fin troppo il mondo circostante,
fin dagli albori della coreuticità greca.
Il suo limite riguarda forse non tanto il fatto che
di morali sull’ipocrisia, sulla meccanica sado/masochista,
sul labile confine della complicità tra carnefice
e vittima sono piene le bobine di sempre, quanto il
fatto che la pretesa provocatoria dell’autore
rimane confinata alla sfera moralistica e psicologica,
al dubbio sull’arroganza e le sue interpretazioni,
perdendosi alla fine in un dialogo non all’altezza
dei temi sollevati. Quasi che di arrogante in fondo
non ci sia altro che l’autore visibilmente compiaciuto
delle trovate da palcoscenico.
Dire che si tratta di un film pessimista è
perciò eccessivo poiché pessimismo e
ottimismo appartengono alla sfera nobile del dubbio
umano. Qui abbiamo semplicemente una descrizione,
una presa d’atto, condita con sapienza dei mezzi
cinematografici, della ineluttabilità del labirinto
in cui rimangono spesso senza via d’uscita i
sentimenti umani. Forse una semplice vendetta sarebbe
stata più appropriata del lavoro indubbiamente
intellettuale che l’autore, anche sceneggiatore,
si è impegnato a fare per trovare motivazioni
credibili al ribaltamento finale dei ruoli.
In una intervista Trier cita Gesù come testimonianza
dell’arroganza di uno piuttosto sicuro di sé.
Ecco. Questo è l’errore di fondo che
limita la potenzialità di un linguaggio centrato
su temi fin troppo riconoscibili. L’arroganza
è solo uno dei fattori in gioco nei destini
umani. E’ in realtà possibile, e fortunatamente
fattibile, partire dalla constatazione umana per costruire
una comunicazione verso altre sfere di evoluzione
e di significati.
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