245 - 17.01.04


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Le regole del provocatore
Carlo Violo


Di Lars von Trier, tanto insofferente delle regole (fin nell’aggiunta del ‘von’ all’originale cognome) da fare della ribellione, della provocazione e del ribaltamento lo stilema della sua produzione, si ricorda soprattutto Le Onde del Destino, gran premio della giuria a Cannes ’96, costruito come Dogville con cinepresa a spalla e poderosa fotografia (all’epoca il grande Robby Muller).

Che l’autore sia rimasto fin troppo poco fedele in passato, e soprattutto in questo film, al suo stesso manifesto Dogma 95 (documento a favore della spontaneità e verginità del mezzo espressivo) è altro elemento biografico interessante per gli amanti delle indagini psicologiche sugli autori. Ma Dogville merita la visione oltre la biografia sedicente provocatoria dell’autore, pur con i suoi limiti che emergono soprattutto nel finale, inutilmente filosofico e, per questo, traditore della stessa intenzione dell’autore che intendeva farsi coerente di una nuova trovata espressiva definita da lui stesso ‘fusionnel’, cioè mescolanza artistica di cinema, teatro e letteratura.

La suggestione del film nasce dall’impianto scenico teatrale (su cui aleggia l’ombra di Brecht, oltre che nella scansione scenica, nell’ispirazione dichiarata dall’autore alla celebre canzone “Jenny dei pirati”), dalla lavorazione manuale della cinepresa e dalla stilizzazione di ambienti e personaggi che pongono il dramma sotto il microscopio di un vero e proprio laboratorio. Nulla perciò di spontaneo ma tutto minuziosamente confezionato. Film quindi con elementi di coraggio, non solo per forma, ma perché pone su zone di confine impalpabili il bene e il male, l’arroganza di chi uccide e di chi perdona, la morale qualunque di un qualunque villaggio con quella strutturata nel verso del potere delle gang organizzate.

Altra suggestione del film è l’interpretazione maiuscola di una Kidmann che quasi oscura grandi solisti come Ben Gazzara, James Caan, Lauren Bacall, quasi sprecati in ruoli da caratteristi ai quali donano interpretazioni professionali peraltro ineccepibili. Probabilmente il film avrebbe trovato la sua identità anche con nomi meno altisonanti, tanto è forte la messinscena teatrale e il dramma che, nelle sue linee più evidenti legate ai meccanismi dell’ipocrisia sociale, ricorda fin troppo il mondo circostante, fin dagli albori della coreuticità greca.

Il suo limite riguarda forse non tanto il fatto che di morali sull’ipocrisia, sulla meccanica sado/masochista, sul labile confine della complicità tra carnefice e vittima sono piene le bobine di sempre, quanto il fatto che la pretesa provocatoria dell’autore rimane confinata alla sfera moralistica e psicologica, al dubbio sull’arroganza e le sue interpretazioni, perdendosi alla fine in un dialogo non all’altezza dei temi sollevati. Quasi che di arrogante in fondo non ci sia altro che l’autore visibilmente compiaciuto delle trovate da palcoscenico.

Dire che si tratta di un film pessimista è perciò eccessivo poiché pessimismo e ottimismo appartengono alla sfera nobile del dubbio umano. Qui abbiamo semplicemente una descrizione, una presa d’atto, condita con sapienza dei mezzi cinematografici, della ineluttabilità del labirinto in cui rimangono spesso senza via d’uscita i sentimenti umani. Forse una semplice vendetta sarebbe stata più appropriata del lavoro indubbiamente intellettuale che l’autore, anche sceneggiatore, si è impegnato a fare per trovare motivazioni credibili al ribaltamento finale dei ruoli.

In una intervista Trier cita Gesù come testimonianza dell’arroganza di uno piuttosto sicuro di sé. Ecco. Questo è l’errore di fondo che limita la potenzialità di un linguaggio centrato su temi fin troppo riconoscibili. L’arroganza è solo uno dei fattori in gioco nei destini umani. E’ in realtà possibile, e fortunatamente fattibile, partire dalla constatazione umana per costruire una comunicazione verso altre sfere di evoluzione e di significati.

 



 

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