Questo articolo è apparso
su la Repubblica
di sabato 10 gennaio 2004
E' accaduto forse una volta sola che Norberto Bobbio
approvasse apertamente il mio operato in faccende che
lo riguardavano. E fu quella volta in cui convinsi un
suo difensore a deporre la clava con la quale stava
per dare l'assalto ai "nemici" a proposito della "lettera
al Duce". Apprezzamenti espliciti da parte sua erano
rari; più chiare, insistite le critiche. In generale
nelle nostre comunicazioni, simili a quelle tra professore
burbero e studente non abbastanza ubbidiente, un moderato
rimbrotto equivaleva a una mezza lode, e un cenno di
assenso equivaleva a un encomio senza ombre. Ma quella
volta fu lode piena.
Ero riuscito a convincere qualcuno - che ancora un po'
me ne vuole - ad abbassare i toni, a non spargere altri
veleni, per quanto meritati. E l'avevo fatto per amicizia,
per lealtà istintiva, non perché ne fossi
razionalmente convinto. Volevo dare sollievo a Bobbio
in un momento di tensione. Erano i giorni della pubblicazione
della famosa "supplica", quel documento in cui chiedeva
a Mussolini che gli venisse "tolta" la ammonizione per
i fatti del 1935 (era stato arrestato a 25 anni insieme
ad altri antifascisti tra i quali Giulio Einaudi e Vittorio
Foa), in modo da poter fare il professore universitario.
Tutte le volte che se ne parlava Bobbio non voleva che
ci si fermasse sul tema, pure interessante, delle ragioni
e dell'identità di chi gli aveva mosso l'attacco,
pensava che fosse più importante mantenere bene
illuminate le responsabilità del regime fascista
e la differenza che corre tra un despota e le sue vittime,
tra chi impone la sua prepotenza e chi subisce la umiliazione.
Ed era molto grato alla sublime lucidità con
cui l' amico Vittorio spiegava la diversa reazione di
un "professionista dell'antifascismo" come egli definì
se stesso, "costretto" dal ruolo a fare l'eroe fino
in fondo (otto anni di carcere), e di un aspirante professore
di diritto, figlio di buona - e fascista - famiglia
che però amava frequentare soltanto giovanotti
avversi al regime.
Una moderata reazione ai veleni, da parte di Bobbio,
non era soltanto una tattica. Certo che ne aveva di
passione politica, ma la sua "diplomazia del dialogo"
anche verso i più feroci avversari (non resisteva
alla tentazione professionale dividere in categorie
anche i nemici: "occasionali" e "perpetui", e una volta
tentammo di farne una lista completa) era però
il risultato di una caratteristica costante della sua
mentalità e del suo stile, diversi dalla mentalità
e dallo stile dei politici: si dialoga perché
dialogando si può capire qualcosa che nel conflitto
tra nemici non si capisce più. Il contrasto esasperato
distorce la visione, semplifica, riduce la realtà
a due poli paranoici. Si capisce che in politica si
deve combattere, ma chi si dedica al sapere contrae
un debito con quella cosa - "verità" è
parola troppo forte - che negli ultimi tempi Bobbio
chiamava "moltiplicazione degli enti", a indicare la
ricca varietà di situazioni che si presentano
tra essere amici ed essere nemici.
Non "zona grigia", diceva, concetto troppo povero e
indistinto anche per descrivere quel che c'era in mezzo
tra fascismo e antifascismo, ma un numero vasto di "enti"
con una loro diversificata consistenza. Fu questo uno
dei punti sui quali ebbe luogo lo spinoso chiarimento
tra Bobbio e Renzo De Felice su
Reset, la rivista
che con lo stesso Bobbio, Foa e altri ventotto volonterosi
mettemmo su nel dicembre del '93. Quella specie di pacifico
duello tra due "grandi vecchi", che organizzammo insieme
a Pasquale Chessa, per una intera giornata nell'appartamento
di via Sacchi non fu conclusivo, né poteva esserlo.
Bobbio e De Felice si trovarono d'accordo nel comune
desiderio di una Italia "normale" per l'oggi, ma rimanevano
divisi e in tensione quando si parlava di "consenso"
al regime fascista. Come si può confondere -
Bobbio criticava il biografo di Mussolini - il consenso
in un regime democratico con quello che si deve dare
per forza sotto un tiranno? Dalle accuse di "condiscendenza"
verso il fascismo Bobbio si difendeva senza complessi
e criticava duramente "chi non distingue tra la diversa
gravità delle colpe dei persecutori rispetto
a quelle dei perseguitati". Un vizio che imputava ancora
alla discussione, nel 2000, intorno al libro di Angelo
D' Orsi (
La cultura a Torino tra le due guerre).
Quanto alla condiscendenza verso il comunismo Bobbio
accettava con la stessa calma di ragionarci. Ed èanche
qui curioso che non spedisse tutti a rileggersi le sue
dure polemiche con i marxisti ortodossi, da Galvano
Della Volpe a Luciano Canfora. La violenza, spesso occultata,
del rancore verso Bobbio che veniva da quella parte
è largamente sottovalutata nella polemica corrente,
ma arrivava allo stato puro in molte lettere anonime
che si divertiva a leggermi. Eccole le due presunte
"condiscendenze" della sua vita: quella verso il fascismo
e quella verso il comunismo. Alle accuse dei nemici
Bobbio reagiva con una serenità ragionante che
indispettiva molti suoi amici, ma credo che sulla distanza
la sua reazione apparirà più convincente
dell' azione che l'ha provocata. Della faziosità
che si è scatenata contro di lui come contro
Alessandro Galante Garrone e tutto l' azionismo e che
è giunta fino alle volgari recenti insolenze
di Baget Bozzo o al rifiuto opposto dal centro-destra
per un'onorificenza del Comune di Torino, sarà
sempre chiara la motivazione: armamentario per battaglie
politiche di una destra bisognosa di delegittimare la
tradizione costituzionale e di legittimare se stessa.
Tra le analisi che Bobbio dedicava ai suoi nemici troveremo
invece ancora a lungo lumi sul nostro tempo, ancora
così inquinato da reduci e da post-qualcosa.
Ci troveremo molta "destra revisionista" ma anche molta
"sinistra revisionata", in una curiosa miscela che si
è talora unita nell'impiego degli archivi fascisti
per assestare un colpo a una figura della Repubblica,
che ci manca già e che ci mancherà ancora
di più nei prossimi anni. Solo che si comincino
a scorrere le sue pagine, si vedrà quanto poco
abbia concesso alle debolezze dell'una e dell'altra
parte. Che il senso di debito contratto verso di lui,
forse per insufficienza di difesa, spinga tanti italiani
a conoscerlo meglio.
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