Mauro Buonocore
Francia, 1946. Sugli scaffali delle librerie compare
Sputerò sulle vostre tombe
(Marcos y Marcos, euro 12,40), la storia di Lee Anderson,
nero dalla pelle bianca che nel pieno sud razzista
degli Stati Uniti si vede consegnare il corpo esanime
del suo fratellino, un ragazzo dalla pelle nera macchiatosi
della sola colpa di essersi innammorato di una ragazza
bianca. Lee inghiotte il dolore e medita una vendetta
che sarà consumata in una cittadina di provincia
lontano da casa sua, dove nessuno lo conosce e dove
può costruire freddamente il suo piano e portarlo
a compimento. La storia si tinge immediatamente di
colori torbidi, sensuali, efferati. Utilizzando la
sua anomalia, quella pelle chiara che lo fa così
diverso dai suoi fratelli neri, Lee si insinua nella
comunità di giovani bianchi benestanti, ne
condivide le passioni sfrenate, porta all’eccesso
ogni vizio fino a regolare definitivamente i suoi
conti razziali.
La storia è avvincente e le pagine corrono
via sotto gli occhi del lettore grazie alla scrittura
rapida e asciutta dell’autore: lo scrittore
nero dalla pelle bianca Vernon Sullivan o, se preferite,
il francese Boris Vian.
E’ Vian infatti che propone all’editore
di scrivere un romanzo di successo, calcando temi
e stili dei romanzi americani che tanto vanno di moda
in quel periodo, inventando di sana pianta la storia,
Lee Anderson e persino il nome dell’autore.
Esperto di tutto quello che si può fare con
le parole (dalle canzoni agli aforismi), provocatore
per indole, Boris Vian incontra la letteratura americana,
utilizza i canoni dei romanzi polverosi come il deserto,
delle violenze razziali, dei racconti di borghesie
viziose e immorali nel cuore dell’Americana
puritana, ma non rinuncia alla sua personale provocazione,
al ritratto di un mondo senza retorica dove non c’è
spazio per la vittoria degli eroi e dove in ogni sconfitta
c’è l’eco di un’amarezza
sardonica.
Se avete papille letterarie abituate a sapori soffici
e delicati non avvicinatevi a Sputerò
sulle vostre tombe: le parole di Vian vi
porteranno direttamente in bocca il sapore dell’odio
e del sangue, oltre ogni finzione, oltre ogni raccapricciante
ipocrsia, oltre ogni letteraria bugia. Perché
non c’è menzogna nell’invenzione,
o meglio, per dirla con la stessa voce di Vian: “la
storia è interamente vera, poiché l’ho
immaginata dall’inizio alla fine”.
Antonio Carioti
Dicono
che abbia ispirato gli ideologi neoconservatori vicini
all’amministrazione Bush, ma vi invito a leggerlo
e poi a giudicare. Il greco Tucidide, autore dell’opera
La guerra del Peloponneso, è
il primo storico moderno, malgrado scrivesse 2400
anni fa, perché il suo sguardo sulle vicende
umane è totalmente disincantato, intriso di
un realismo freddo quanto acuto. Aveva già
scoperto, in anticipo di quasi due millenni sul nostro
Niccolò Machiavelli, l’autonomia della
politica dalla religione e dalla morale.
Tuttavia gli eventi da lui narrati non sembrano proprio
adatti a giustificare la dottrina della guerra preventiva.
Parla di una grande potenza democratica, Atene, presa
dalla missione di estendere alla Grecia intera la
sua egemonia e il suo modello politico. Ciò
la porta a commettere pesanti abusi sui deboli (come
gli abitanti dell’isola di Melo) e poi a intraprendere
una dissennata spedizione di conquista contro la lontana
Siracusa, terminata in un disastro. Lungi da me l’auspicio
che gli Usa possano subire una sorte del genere in
Medio Oriente. Ma certo i teorici della democrazia
da esportare, se hanno letto Tucidide, non mostrano
di averne assimilato la lezione.
La guerra del Peloponneso di Tucidide
si trova nelle collane di classici dei più
importanti editori (Mondatori, Rizzoli, Garzanti,
Laterza). Due brani molto significativi, l’Epitafio
di Pericle per i caduti del primo anno di guerra
e il Dialogo dei melii e degli ateniesi,
sono stati pubblicati separatamente da Marsilio.
Paola Casella
Uno
dei romanzi che più mi hanno sconvolto, da
ragazzina, è stato I ragazzi della
Via Pàl dell'ungherese Ferenc Molnár,
cui il film omonimo del '34, firmato da Frank Borzage,
rendeva giustizia, vincendo anche un premio alla Mostra
del cinema di Venezia (e mi dicono che persino lo
sceneggiato recentemente andato in onda sulla Rai
non fosse male - considerato il livello generale).
Il piccolo protagonista, Nemecsek, famoso "unico
soldato semplice in un esercito di ufficiali",
è un vero eroe romantico: leale, stoico, coraggioso.
Ma è anche un anti-eroe novecentesco nell'ammissione
della propria paura e nella percezione di sé
come "uomo medio" - ma non necessariamente
mediocre. Lo riconosciamo, ci riconosciamo in lui,
e certamente riconosciamo la brutalità ottusa
e gregaria degli orribili fratelli Pasztor, sadici
esecutori di ordini altrui, yes-men forti della propria
doppia declinazione, come i Bravi di Manzoni e i Carabinieri
di Pinocchio. I ragazzi della Via Pàl
è inoltre una parabola sull'inutilità
della guerra, molto utile di questi tempi.
Faccio un'eccezione tutta italiana per parlare di
un personaggio universale: Anna Magnani,
protagonista del saggio omonimo di Italo Moscati,
appena uscito per Ediesse e RaiEri. Un'attrice e una
donna passionale che va raccontata con passione, come
fa Moscati, che conosce bene il cinema italiano (oltre
che critico, è sceneggiatore e regista) e che
fa rivivere la mitica Nannarella attraverso le sue
stesse frasi e le frasi di chi l'ha conosciuta, attraverso
storie di amori e di abbandoni, di uomini grandi e
piccoli, di piccoli e grandi uomini. E' un saggio
breve che si legge come un lungo racconto, il ritratto
di una donna capace di errori grossolani e gesta eroiche,
clamorose sviste e acute percezioni. Gigantesca nella
sua umana fallibilità, invincibile nella sua
fragilità femminile.
Daniele Castellani Perelli
V.
(Bompiani, 1996, p. 618, euro 9.30) è un romanzo
di Thomas Pynchon, il padre del postmoderno americano.
Voi direte, che c’azzecca con l’Europa?
C’azzecca, don’t worry, e tra poco capirete
perché.. Romanzo complesso, si dirama in infinite
storie, intrecciando, per molteplici epoche e luoghi,
le fragili vite di personaggi come Benny Profane,
incapaci di trovare il senso della propria esistenza.
Colto e misterioso come il suo autore, che nessuno
sa bene chi sia e che è tanto riservato e irrintracciabile
che qualcuno ha pensato che in realtà fosse
Salinger. Allusivo e destabilizzante. Dove l’anti-eroe
Herbert Stencil, inglese che vive a New York, si lancia
nell’avventurosa ricerca di V.,
passando anche per Firenze, Malta e la vecchia Europa
(Brutta notizia per Rumsfeld. Cosa sarebbe la letteratura
americana senza l’Europa? Hemingway senza la
Spagna, Fitzgerald senza la Francia, Pound senza l’Italia?).
Stencil crede che V. sia una donna, e l’unica
cosa che sa di lei è contenuta in una vecchia
nota scritta da suo padre: “Firenze, Aprile,
1899…C’è più dietro e dentro
V. di quanto ognuno di noi avesse
sospettato. Non chi, ma cosa: cos’è lei”.
Ma cos’è allora questa V.
che muove il libro? Ottima domanda. Un luogo, una
persona, un tempo? Difficile dirlo. Chissà
che leggendolo non scoprirete voi stessi la vostra
V.
Scritto nel 1963, il romanzo di Pynchon ha da dire
oggi molto più a un europeo che a un americano.
Se vi interessa la teoria della letteratura, la domanda
è: perché l’America produce romanzi
complessi, in cui si intrecciano mille storie, mille
luoghi e mille personaggi, e l’Europa no? Perché
di là dall’Atlantico De Lillo (per la
letteratura) e Paul Thomas Anderson (per il cinema),
e di qua no? Non sarebbe proprio questa l’ora
dell’Europa molteplice, in letteratura come
in politica? “Uniti nella diversità”
è scritto nel testo della Costituzione di Giscard.
Chissà che il motivo per cui non si scrivono
molti romanzi postmoderni nel (ma soprattutto del)
vecchio continente (tranne alcune eccezioni, come,
per l’Italia, Camere separate di Tondelli),
non sia lo stesso per cui la Conferenza Intergovernativa
non è riuscita ad approvare la Costituzione
europea. Buona lettura (se vi va).
p.s.: il motivo non è Aznar.
Francesco Màndica
Ecco la mia top five:
Mircea Cartarescu, Travestì
(Voland)
Cees Nooteboom, Autoritratto di un altro
(Crocetti)
Alain de Botton, Il piacere di soffrire
(Guanda)
Cora Sandel, La bambina che amava le strade
(Giano)
Lawrence Norfolk, Un rinoceronte per il papa
(Frassinelli)
Corrado Ocone
Il
Natale può essere l’occasione per leggere
o rileggersi quella che considero l’opera fondante
dello spirito europeo, dell’Europa moderna:
il Don Chisciotte de la Mancha di
Miguel de Cervantes. Come i grandi capolavori, è
un’opera di frontiera: dal punto di vista dello
stile, fra il comico e il tragico (condizione che
è la vera cifra, come dice George Steiner,
della serietà umana); da quello storico (a
cavallo fra gli ideali della cavalleria e la prosaicità
del mondo moderno e borghese); dal punto di vista
esistenziale (lo sfasamento fra gli ideali e la realtà).
Un capolavoro al fondo amaro che fa riflettere quasi
con leggerezza.
Tutt’altro libro e tutt’altra Europa,
quella di mezzo e tragicamente guerresca di Ernst
Junger. Il quale però, fra sangue e spirito
visionario, ebbe tempo e forza di scrivere quattro
saggi poetici dedicati ad alberi, pietre, all’autunno
e all’inverno. L’albero. Quattro
prose, scritto fra il 1959 e il 1966, escono
in raffinata edizione italiana per Herrenhaus, splendidamente
tradotti da Alessandra Iadicicco. Sono quattro divgazioni
sui confini dei saperi che, incrociando i territori
della botanica, della mineralogia, della geografia
e delle tradizioni poetiche, conducono l’autore
alle rivelazioni che già si erano manifestate
lungo filosofici percorsi.
Chiara Rizzo
La
più bella storia d’amore di tutti i tempi
è Cime tempestose di Emily
Brönte. Di un amore che va oltre la morte, sublimato
dalla vendetta, dalla sofferenza. È straordinario
pensare che una storia del genere sia stata scritta
da una donna che ha vissuto così poco, una
donna che non ha conosciuto la passione, che ha diviso
la sua breve esistenza tra collegi e sacrestie di
parrocchie (il padre era un reverendo anglicano),
immersa nella desolata solitudine della brughiera.
Eppure è proprio in quel silenzio che il suo
cuore ha iniziato a scoprire mistiche e soprannaturali
corrispondenze; a cogliere vibrazioni metafisiche
nel grigiore della quotidianità; a trovare
nella malinconia un’impalpabile estasi di gioia
selvaggia, a creare mondi immaginari di esasperato
romanticismo. Tanto da regalarci la frase più
incredibile - scusate le iperboli e i superlativi:
nessun “consiglio” può essere tale
se non è particolarmente caloroso - che mai
labbra di donna abbiano pronunciato (seppure solo
nelle pagine di un libroS ma d’altronde quale
uomo in carne e ossa è degno di sentirsela
dire?): “Lo amo perché lui è me
più di me stessa”.
Ludovica Valori
“Je suis couché dans un plaid
Bariolé
Comme ma vie
Et ma vie ne me tient pas plus chaud que ce chale
Ecossais
Et l’Europe tout entière aperçue
au coupe vent d’un express à toute vapeur
N’est pas plus riche que ma vie
Ma pauvre vie
Ce chale
Effiloché sur des coffres remplis d’or
Avec lesquels je roule
Que je reve
Que je fume
Et la seule flamme de l’univers
Est une pauvre pensée…”
(Sono disteso in un plaid/Variopinto/Come la mia vita/E
la mia vita non mi tiene piu’ caldo di questo
scialle/Scozzese/E l’Europa tutta intera vista
al deflettore di un espresso a tutto vapore/Non e’
piu’ ricca della mia vita/Questa povera vita/Questo
scialle/Sfilacciato su forzieri pieni d’oro/Con
i quali viaggio/Che sogno/Che impesto di fumo/E la
sola fiamma dell’universo/E’ un povero
pensiero…)
Prose du Transsiberien et de la petite Jehanne
de France, Blaise Cendrars.
Dalla raccolta Dal mondo intero,
Guanda, a cura di Rino Cortiana, testo originale a
fronte.
La mia scelta cade questa volta su Blaise Cendrars
(La Chaux-Des-Fonds, Svizzera,1887 - Parigi1961),
poeta, scrittore, viaggiatore e intellettuale decisamente
antitradizionale e antiaccademico nello stile e nella
vita: europeo e “cittadino del mondo”,
come ci ricorda il titolo di questa raccolta di poesie,
che comprende altri pezzi irrinunciabili come “Les
Paques a New York” (1912) e “Le Panama
ou les aventures des mes sept oncles” (1918).
Parlo di “pezzi” perche’ queste
poesie (soprattutto se lette in lingua) portano in
se’ una musicalita’ ricca e a volte malinconica,
ironica e sprezzante, come canzoni da strada: vere
sinfonie moderne, costruite con le immagini e i rumori
delle grandi citta’ nei primi anni del secolo
scorso, con le loro chiassose periferie, le fabbriche,
le strade ferrate e, purtroppo, le guerre a venire
(a questo proposito segnalerei anche il romanzo di
C. sulla Prima Guerra Mondiale, La Mano Mozza,
Garzanti, traduzione di Giorgio Caproni).
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