Dev’essere
bella, Berlino, anche d’inverno, per un certo
numero di buoni motivi. Io la vidi sotto la neve d’aprile
e sotto il sole d’agosto, e mi parve (come parve
a molti) il luogo più sereno in cui vivere.
E ricordo. Ricordo che dietro Potsdamer Platz c’è
una piazzetta e una fontana (Brunnen), con due biciclette
colorate appese sull’acqua e un ristorante di
classe (Klasse!) dove paghi 20 euro per un tonno (Thunfisch)
e degli asparagi bianchi, e dove la cameriera è,
in tutta evidenza, una stronza. Ricordo che certe
linee del metrò (U-Bahn) sono aperte tutta
la notte (Nacht), e ti portano in appartamenti sperduti,
dove scroccherai chili con carne alla festa
di un tipo cileno che non conosci e che è impaccato
di soldi (Geld).
Dev’essere bella, Berlino, anche d’inverno,
perché a Kreuzberg, nel quartiere turco (Kleine
Istanbul), il barbiere ti offrirà del tè
bollente e per 2 euro e 30 mangerai un Doner Kebab
che neanche Ankara. Perché tra i prati di Tiergarten
puoi bere una birra (Berliner Pilsner) e innamorarti
di due labbra e di un piercing. Perché, davanti
al Checkpoint Charlie, John (FK) disse (26 giugno
1963, esattamente 16 anni prima della mia nascita):
“There are many people in the world who really
don’t understand, or say they don’t, what
is the great issue between the free world and the
Communist world. Let them come to Berlin”.
Ricordo
il mio fratello Oezgur, che volle che mi si leggesse
il destino sul fondo di un caffè turco (un
bel destino, devo ammettere, con moglie, figli e casa
sul mare, perbacco). Ricordo le serate cubane di salsa
con Carlos, la sera al cine (Matrix 2
in tedesco, per fortuna molti effetti sonori) con
Romi (volto rinascimentale), Goodbye Lenin con
Marlene (per sempre debitore), le poesie di Edna,
il tappo di spumante per il compleanno di François,
la cena di otto ore in inglese con il Pec e Pamela
(antiamericana dell’Ohio) e Stefan (viaggiatore
del mondo e renitente alla leva a Berlino Ovest).
L’emozione di visitare un campo di concentramento
nazista con l’altro mio fratello, Dekel di Tel
Aviv e perderlo lì dentro con la sua maglietta
ostentatamente israeliana, e poi ritrovarlo, e dirgli
“Oddio (Mein Gott) temevo fosse successo di
nuovo (noch einmal!)”, e scoprire cos’è
l’umorismo ebraico.
Dev’essere bella Berlino, anche d’inverno,
tanto da non capire. Non capire se è perché
Lei ha voluto che tutto iniziasse sotto la Fontana
del Nettuno di Alexander Platz, o se è la luce
(Licht) che s’infila tra i libri di Oranienstrasse.
Se è il Suo polso fasciato mentre felice (gluecklich)
prende il couscous dagli scaffali di Kaiser’s,
o se sono gli orsi (Baeren) delle nazioni in cerchio
dietro la Porta di Brandeburgo. Se è la voce
con cui Lei ripeteva per gioco il nome delle stazioni
(Kottbusser Tor) o se è il nuovo Rinascimento
europeo dell’acqua (Wasser) di Potsdamer Platz
e del Sony Center (piedi a mollo con François).
Se è il laccio dei capelli che partendo ha
lasciato sul tavolo della tua stanza o è il
fatto che nessun Gasparri tedesco ha ancora chiesto
la demolizione del monumento a Marx e Engels. O se
sono i resti del muro dell’East Side Gallery,
il Quartiere Schützenstraße di Aldo Rossi,
i bar sullo Spree al lume di candela o le bettole
psichedeliche di Berlino Est. Chissà cos’è,
di tutto quest’incanto, che ti faceva sentire
felice e che un giorno ti farà credere, come
a tutti gli italiani che come te sono stati a Berlino,
di averla presa anche tu, la “berlinite”.
La stupida paura che Berlino sia stata la tua età
dell’oro, la tua meglio gioventù, e che
solo lì saprai essere felice così, bello
e grande così, come la Torre della Televisione
(Fernsehturm) che svetta nel cielo sopra Berlino.
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