Quello
che segue è il testo del discorso d’apertura
di Shashi Tharoor in occasione del Terzo “Festival
Internazionale della Letteratura” di Berlino
presso il teatro “Berliner Ensemble”*.
Berlino, 10 settembre 2003
Quando gli organizzatori del Festival internazionale
della Letteratura mi chiesero di tenere questo discorso,
mi proposero di parlare di qualcosa che potesse conciliare
i miei due mondi: l’ONU e la letteratura. Mentre
pensavo all’argomento da trattare, ho riflettuto
sulle questioni che hanno caratterizzato maggiormente
la mia vita all’ONU nell’ultimo periodo:
le forze della globalizzazione, che stanno operando
sul mondo una trasformazione inarrestabile; la natura
dei mass media internazionali, che in qualità
di funzionario ONU cerco di influenzare; e infine,
i cambiamenti che l’era del terrorismo, o “9/11”,
com’è chiamata in America, aveva prodotto
in noi una volta che la sua ombra si era stagliata
sulle menti impadronendosi della nostra immaginazione.
La globalizzazione, i media, la nostra immaginazione…
mi sono chiesto: nel mondo del dopo 11 settembre,
esiste qualcosa che si possa definire immaginazione
globale?
In altre parole: la globalizzazione, che ha portato
McDonald’s e Microsoft in ogni paese, e’
riuscita anche a raggiungere tutte le menti con Topolino
e Nintendo, comprese quelle di Osama bin Laden e “Alì
il chimico”? Il quesito in realtà e’
più serio di quello che possa sembrare, soprattutto
se si tiene conto della velocità della TV satellitare
e via cavo. I media portano sulla tavola della nostra
colazione e nei nostri salotti e sempre più
spesso anche sui nostri computer e cellulari, stralci
di eventi da ogni angolo del globo.
Qualsiasi dubbio che mi fosse ancora rimasto riguardo
alla portata e all’influenza delle comunicazioni
di massa è stato spazzato via quando, trovandomi
per caso a San Pietroburgo, in Russia, sono stato
avvicinato da un monaco buddista tibetano che, indossando
la sua tunica e cantando i suoi mantra al ritmo di
un cembalo, ha cessato per un attimo il proprio canto
per dire: “Ma io l’ho vista alla BBC!”.
Le nuove tecnologie della comunicazione hanno fatto
restringere il mondo, rendendolo effettivamente un’entità
unica.
Ma
dopo l’11 settembre 2001, la nozione di immaginazione
globale si è caricata di una sfida diversa.
Il 9/11, come ci hanno insegnato a chiamarlo gli americani,
è nato il ventunesimo secolo. Se, come sosteneva
lo storico Eric Hobsbawm, il ventesimo secolo comincio’
in realtà con l’assassinio di Sarajevo
che diede inizio alla Prima Guerra Mondiale, è
giusto dire che, a giudicare dall’impatto che
ha già avuto sulla configurazione della nostra
epoca, il ventunesimo secolo è cominciato con
il crollo del World Trade Center, avvenuto due anni
fa domani.
Cosa intendo dire con questo? La distruzione del
World Trade Center ha sferrato un colpo non solo alle
istituzioni del capitalismo americano e mondiale,
ma anche alle certezze che lo sostenevano; certezze
di un sistema sociale e politico che, senza doverci
pensare troppo, riteneva di aver trovato la risposta
alle sfide della vita e di essere in grado di vincerle
tutte. Naturalmente la ferita dell’11 settembre
e la paura dell’antrace che è seguita
hanno portato la desolante consapevolezza della vulnerabilità
fisica in un paese che, pur avendo combattuto nel
corso della sua storia una dozzina di guerre importanti,
a memoria d’uomo non aveva mai subito un attacco
diretto.
Era il paese in cui uno studioso come Mark Twain aveva
potuto asserire con grande compiacimento “la
fine della storia”; adesso invece la storia
ha proclamato che la notizia del suo decesso era azzardata.
Nel mondo di oggi sempre più piccolo nemmeno
la geografia ha saputo garantire protezione. Anche
solo per aver sancito la fine dell’isolamento
degli americani rispetto alle sofferenze che affliggono
il resto del globo, l’11 settembre ha cambiato
il mondo per sempre.
Ma i tragici eventi di quell’unica giornata
sono emblematici del nostro nuovo secolo anche sotto
un altro aspetto cruciale. I tratti distintivi del
mondo di oggi sono le inesorabili forze della globalizzazione,
la facilità di comunicazione e di spostamento,
la riduzione dei confini, l’attraversamento
del mondo di flussi di persone di tutte le nazionalità
e colori, la rapidità delle transazioni finanziarie
per mezzo di un tasto. L’aeroplano, il cellulare
e il computer sono gli strumenti della nostra epoca.
Queste stesse forze, che in una fase più benigna
avrebbero potuto indirizzare il mondo verso il progresso
e la prosperità, sono state usate invece dai
terroristi come forze per la loro macabra danza di
morte e distruzione. Hanno attraversato agevolmente
le frontiere, coordinato i propri sforzi con precisione
tecnologica, dirottato dei jet per farli abbattere
contro gli obiettivi stabiliti (mentre le loro vittime
designate telefonavano con il cellulare ai loro cari
per un ultimo addio). Si è trattato di un reato
da ventunesimo secolo e ha definito come nessun altra
cosa i pericoli e il potenziale della nostra epoca.
Ha anche provocato negli Stati Uniti una reazione
che, a sua volta, lascerà un segno indelebile
nel nuovo secolo. Il ventesimo secolo, com’è
noto, è stato battezzato da Henry Luce del
Time Magazine “il secolo americano”,
ma gli albori del ventunesimo secolo vedono gli Stati
Uniti in una condizione di predominio economico, politico,
culturale e militare molto più forte di quella
mai avuta da una potenza mondiale. Gli Stati Uniti
godono di una supremazia militare relativa che non
ha precedenti nella storia umana; neppure l’Impero
Romano al suo apice si staccava dalla capacità
militare del resto del mondo con la stessa nettezza
degli Stati Uniti di oggi.
Ma non è tutto. Quando l’ex Ministro
degli Esteri francese, Hubert Vedrine, ha definito
gli Stati Uniti una ”superpotenza” (“hyperpuissance”),
non si riferiva solo alla supremazia militare americana,
ma anche agli USA in quanto patria di Boeing e Intel,
di Microsoft e MTV, di Hollywood e Disneyland, di
McDonald’s e Kodak: in breve, della maggior
parte dei prodotti che dominano la vita quotidiana
in tutto il mondo.
E tuttavia, prima del 9/11, Washington era stata
curiosamente ambigua nell’esercizio di tale
supremazia, con diverse figure di spicco che parlavano
e si comportavano come se il resto del pianeta fosse
irrilevante per l’esistenza dell’America
o per la sua favoleggiata ricerca della felicità.
Dopo l’11 settembre non esiste più la
possibilità di un facile rifugio nell’isolazionismo,
né si può trovare conforto nell’illusione
che i problemi del resto del mondo non devono necessariamente
toccare gli Stati Uniti.
Gli americani ora hanno capito visceralmente il vecchio
cliché del villaggio globale, perché
il 9/11 ha dimostrato che un incendio che si scatena
in una remota capanna di paglia o in una tenda polverosa
in un angolo di un villaggio può fondere le
travi d’acciaio dei più alti grattacieli
all’estremità opposta del villaggio globale.
Le sfide globali richiedono soluzioni globali, e
sono davvero poche le situazioni in cui persino una
superpotenza può agire completamente da sola.
Questo truismo è stato nuovamente riconfermato
in Iraq, dove gli Stati Uniti stanno scoprendo che
da soli sono più bravi a vincere le guerre
che a costruire la pace. I limiti della forza militare
nella costituzione di una nazione sono più
che evidenti; come affermo’ Talleyrand, l’unica
cosa che non si può fare con una baionetta
è sedercisi sopra. Ugualmente importante, tuttavia,
è la necessità di legittimazione. Agire
in nome del diritto internazionale, specialmente passando
per le Nazioni Unite, è sempre preferibile
che agire in nome della sicurezza nazionale, dato
che, nel primo caso, tutti hanno un interesse. Dunque
la multilateralità ha ancora un futuro a Washington.
Ciò è tanto più vero in quanto
l’era del terrorismo costituisce una minaccia
multilaterale. L’attacco terrorista del 9/11
è stato un assalto non solo a un paese ma,
nella sua atroce indifferenza nei confronti della
vita di innocenti di ottanta paesi di tutto il mondo,
è stato anche un assalto agli stessi legami
di umanità che uniscono tutti noi. Per rispondere
efficacemente dobbiamo essere uniti. Il terrorismo
non ha origine in un solo paese, chi lo esercita non
ha la propria base in un solo paese, le sue vittime
non si trovano in un solo paese, e dunque anche la
risposta deve coinvolgere tutti i paesi.
Il terrorismo scaturisce dall’odio cieco per
un Altro, che è a sua volta il prodotto di
tre fattori: paura, rabbia e incomprensione. Paura
di ciò che l’Altro può farti,
rabbia per ciò che secondo te l’Altro
ti ha fatto, e incomprensione riguardo a chi o cosa
l’altro è realmente. Questi tre elementi
si fondono innescando quella combustione letale che
uccide e distrugge delle persone il cui unico peccato
consiste nel non provare nessuno di questi sentimenti.
Se vogliamo affrontare il terrorismo e porvi fine,
dovremo occuparci di tutti e tre questi fattori attaccando
l’ignoranza che li sottende. Dovremo conoscerci
meglio a vicenda, imparare a vederci come ci vedono
gli altri, imparare a riconoscere l’odio e a
farci carico delle sue cause, imparare a dissipare
la paura e soprattutto imparare gli uni dagli altri.
In un certo senso, i terroristi del 9/11 stavano attaccando
la globalizzazione dell’immaginazione umana,
la cultura empia, materialistica e promiscua dell’Occidente
dominante, incarnata in una globalizzazione da cui
le persone come loro si sentivano escluse. Di certo
coloro che hanno acclamato la loro azione l’hanno
fatto a causa del sentimento di esclusione. Se parliamo
dell’immaginazione umana oggi, dobbiamo chiederci
cosa porti un numero sorprendentemente alto di giovani
a seguire la rotta disperata tracciata per loro dai
fanatici e dagli ideologi.
Un senso di oppressione, di esclusione, di emarginazione
può dare origine all’estremismo. Quarant’anni
fa, nel 1962, il mai dimenticato Segretario Generale
delle Nazioni Unite U Thant avvertì che avrebbe
potuto scatenarsi un’esplosione di violenza
in seguito al senso d’ingiustizia provato da
coloro che vivevano nella miseria e nella disperazione
in un mondo di abbondanza. L’11 settembre sono
morte circa 2.600 persone al World Trade Centre. Ma
l’11 settembre sono morte anche circa 26.000
persone in tutto il mondo a causa della fame, dell’acqua
inquinata e di malattie che possono essere prevenute.
Non possiamo permetterci di escluderle dalla nostra
immaginazione globale.
Ma naturalmente, non è tutto. Se uno Stato
non è nemmeno in grado di offrire al suo popolo
la speranza di una vita migliore per i suoi figli
garantendo l’accesso all’istruzione di
base, come possiamo aspettarci che quel popolo o quei
figli resistano alle lusinghe del terrore? Non dovrebbe
essere una sorpresa scoprire che i Talebani hanno
reclutato la loro fanteria nelle scuole religiose
o nelle madrase che costituivano l’unica fonte
di formazione e “istruzione” per i tanti
bambini che non avevano a disposizione altra fonte
di conoscenza, che non imparavano in queste scuole
scienze, matematica o informatica, bensì il
credo del Corano e del Kalashnikov: il Corano interpretato
grossolanamente, il Kalashnikov costruito grossolanamente.
E la loro immaginazione era, di conseguenza, tutt’altro
che globale.
Questo mi riporta alla domanda che ho sollevato all’inizio:
siamo caduti nella pericolosa illusione che l’immaginazione
umana possa essere globalizzata? Per elaborare una
risposta dobbiamo guardare ai mass media globali.
I mass media riflettono principalmente gli interessi
dei loro produttori. Ciò che passa per cultura
internazionale è solitamente la cultura del
mondo economicamente sviluppato. È la nostra
immaginazione a essere globalizzata. I film e i programmi
televisivi americani, in particolare, si ritrovano
sugli schermi della maggior parte dei paesi.
Chi altro riesce a penetrare nell’immaginazione
globale nel nostro splendido nuovo mondo? Sì,
occasionalmente si sente la voce del terzo mondo,
ma parla la lingua del primo mondo. Durante la lontana
prima guerra civile del Congo del 1962, il giornalista
Edward Behr vide in un campo di suore belghe violentate
un anchorman televisivo che gridava: “C’è
qualcuna qui che è stata stuprata e parla inglese?”
In altre parole, non bastava aver sofferto: bisognava
aver sofferto ed essere in grado di esprimere la propria
sofferenza nella lingua del giornalista. Il che ci
porta alla logica domanda successiva: coloro che nei
media globalizzati parlano in nome delle proprie culture
sono i loro rappresentanti più autentici?
Internet potrà compensare? È uno strumento
democratizzante? In Occidente, forse lo è diventato,
ora che le informazioni sono molto più accessibili
a chiunque e dovunque. Ma questo non succede nel mondo
in via di sviluppo. La cruda realtà di Internet
oggi è la distribuzione digitale: si possono
distinguere i ricchi dai poveri dalla loro possibilità
o meno di collegarsi a Internet. Il divario tra chi
ha e chi non ha a livello tecnologico si sta allargando,
sia all’interno dei paesi che tra i paesi.
La rivoluzione informatica, a differenza di quella
francese, è una rivoluzione con molta liberté,
poca fraternité e nessuna egalité. Dunque
la linea della povertà non è l’unica
su cui riflettere; c’è anche una linea
digitale ad alta velocità, la linea a fibre
ottiche, tutte le linee che escludono coloro che,
letteralmente, restano tagliati fuori dalle possibilità
del nostro splendido nuovo mondo. La chiave del divario
Internet è la tastiera del computer. Quelli
che non ne hanno una rischiano l’emarginazione
e la loro immaginazione non travalica i confini.
Queste preoccupazioni sono reali. Se vengono affrontate,
se la volontà di superarle è assodata
e applicata, il Ventunesimo secolo potrebbe ancora
diventare un’epoca di comprensione reciproca
come non si e’ mai vista prima. Un mondo in
cui conoscere degli estranei è più facile
di quanto non lo sia stato in passato, deve diventare
un mondo in cui sia anche più facile vedere
gli estranei come persone non diverse da noi.
L’ignoranza e il pregiudizio sono le ancelle
della propaganda, e nella maggior parte dei conflitti
moderni, gli uomini di guerra approfittano dell’ignoranza
della gente comune per diffondere timori e scatenare
odii. È quanto è successo in Bosnia
e in Ruanda, dove ideologie basate su assassinio e
genocidio hanno messo radici in assenza di informazioni
veritiere e di istruzione onesta. Se solo la metà
degli sforzi fossero andati nella direzione di insegnare
a quei popoli ciò che li unisce e non ciò
che li divide, crimini innominabili sarebbero potuti
essere evitati.
Anche la libertà di parola garantisce la diversità.
In quanto scrittore indiano, ho sostenuto che la recente
esperienza del mio paese con la penetrazione globale
dei prodotti di consumo occidentali dimostra che possiamo
bere la Coca Cola senza venirne colonizzati. La cultura
popolare propria dell’India fa anch’essa
parte della globalizzazione: i prodotti di “Bollywood”
sono esportati nelle comunità degli indiani
espatriati all’estero. Il successo del cinema
e della musica indiani in Inghilterra e negli Stati
Uniti dimostra che l’Impero può restituire
il colpo.
E non si tratta solo dell’India. Un recente
studio ha reso noto che la programmazione televisiva
locale ha cominciato a sopravanzare le trasmissioni
made-in-America in un numero sempre maggiore di paesi.
E mentre il mondo globalizzato cambia, non lo fa solo
in una direzione. In Inghilterra oggi, le “curry
houses” indiane danno lavoro a più persone
dell’industria metallurgica, del carbone e di
quella cantieristica insieme.
Nel mio primo romanzo, The Great Indian Novel, ho
reinventato un poema epico antico di duemila anni,
il Mahabharata, sotto forma di racconto satirico della
storia dell’India del Ventesimo secolo, dai
giorni dell’era britannica ad oggi. La mia scelta
era consapevole. La maggior parte dei paesi in via
di sviluppo sono anche ex colonie, e una caratteristica
del colonialismo era appropriarsi della definizione
culturale dei popoli assoggettati. Scrivendo dell’India
in inglese, non posso non pensare a coloro che hanno
fatto la stessa cosa prima di me, alcuni con maggiore
competenza linguistica, ma con minore conoscenza del
paese.
Ancora oggi pensando all’India nel mondo anglofono
si pensa per immagini condizionate da Rudyard Kipling
e E.M.Forster, dai "lancieri del Bengala"
e dai “Gioielli della Corona”. Ma le loro
storie non sono le mie, i loro eroi non sono i miei;
la mia narrativa cerca di riscattare il retaggio del
mio paese, di raccontare, con una voce indiana, una
storia dell’India. E sottolineo “una”
storia dell’India, perché ci sono sempre
altre storie e altri indiani a raccontarle. Ma che
importanza ha un’asserzione letteraria di questo
tipo di fronte alle sfide gigantesche davanti alle
quali si trova un paese come l’India? La letteratura
può avere un qualche significato in un paese
di povertà, sofferenza e sottosviluppo? Io
credo di sì.
Il mio romanzo comincia con l’affermazione che
l’India non sia, come continua a dire la gente,
un paese sottosviluppato, ma piuttosto, nel contesto
della sua storia e del suo retaggio culturale, un
paese altamente sviluppato in una condizione di decadenza.
Tali sentimenti sono il privilegio dell’autore
satirico; ma come romanziere sono convinto, con Molière,
che per edificare bisogna divertire. Ma edificare
a che scopo? Qual è la responsabilità
dell’artista creativo, dello scrittore, in un
paese in via di sviluppo nel nostro mondo in via di
globalizzazione? Nei miei scritti ho indicato una
responsabilità: dare un contributo, aiutare
ad articolare e a dare espressione all’identità
culturale (mutevole, variegata e molteplice, nel caso
indiano) della società postcoloniale alle prese
con i dolori della globalizzazione.
La stragrande maggioranza dei paesi in via di sviluppo
è uscita solo di recente dall’incubo
del colonialismo; sia il colonialismo che la globalizzazione
hanno alterato e distorto la percezione culturale
che essi hanno di se’. Lo sviluppo non potrà
realizzarsi senza una riaffermazione dell’identità:
che questo è ciò che siamo, che è
ciò di cui andiamo fieri, che è quanto
vogliamo diventare. In tale processo, cultura e sviluppo
sono fondamentalmente collegati e interdipendenti.
Il compito dello scrittore è trovare nuovi
modi per esprimere la sua cultura e far rivivere quelli
antichi, nel momento stesso in cui la sua società
tenta, nel bel mezzo della globalizzazione, di trovare
nuovi modi di essere e di divenire.
In quanto scrittore votato al pluralismo indiano,
vedo la riaffermazione culturale come una parte essenziale
delle sfide alle quali un paese come l’India
si trova di fronte, essenziale tanto quanto lo sviluppo
economico. Tutti noi conosciamo il proverbio secondo
cui “non si vive di solo pane”. In India,
secondo me, la musica, la danza, l’arte e il
raccontare storie sono indispensabili per la nostra
capacità di affrontare quella costruzione essenziale
che chiamiamo la condizione umana. Dopotutto, perché
l’uomo ha bisogno del pane? Per sopravvivere.
Ma perché sopravvivere, se è solo per
mangiare altro pane?
Vivere è qualcosa di più che sopportare
solamente la vita: è arricchire la vita e farsi
arricchire dalla vita. I più poveri tra gli
uomini e le donne del mondo in via di sviluppo sentono
pulsare dentro di sé l’immaginazione,
perché raccontano ai loro figli delle storie
sotto i cieli stellati – storie del loro paese
e dei suoi eroi, storie della terra e dei suoi misteri,
storie che hanno fatto di loro ciò che sono.
E (dato che il mio secondo romanzo parlava di Bollywood)
vedono e sentono anch’essi delle storie, alle
luci tremule dei migliaia di cinema sparsi per il
nostro paese, dove s’intrecciano il mito e la
fantasia escapista, e la rettitudine morale quasi
invariabilmente trionfa con i titoli di coda.
La globalizzazione, dicono i suoi avvocati difensori,
riguarda la crescita e lo sviluppo. Ma non può
ridursi a un elenco di cifre sulle tabelle dei PIL,
a materia di studio per economisti e uomini d’affari,
invece che per la gente. E se la gente deve svilupparsi,
è impensabile che si sviluppi senza la letteratura,
senza il canto, la danza, la musica, il mito, senza
storie sulla sua vita, e senza esprimere la propria
visione del proprio destino attuale e delle proprie
speranze per il futuro. Lo sviluppo presuppone il
dinamismo; il dinamismo richiede la libertà,
la libertà di creare; la creatività
esige, semplicemente, immaginazione.
Ma parlando della riaffermazione culturale dell’immaginazione,
non voglio difendere una costruzione chiusa. Sono
convinto che noi indiani non saremo meno indiani se,
ricorrendo alla metafora del Mahatma Gandhi, apriremo
le porte e le finestre del nostro paese e lasceremo
che dei venti stranieri spazzino la nostra casa. Per
me i venti della globalizzazione devono soffiare in
entrambe le direzioni. La Carta dell’UNESCO
ci ricorda che “poiché la guerra nasce
nella mente degli uomini, è nella mente degli
uomini che bisogna costruire le fondamenta della pace”.
Ciò vale non solo per la guerra e per la pace,
ma per l’intero tessuto della vita umana e della
società che deve essere costruito nella nostra
mente.
Come ci hanno insegnato gli accoliti di Osama bin
Laden o i giovani soldati dei Talebani, il mondo avrà
sempre più di una mente. Ed ecco perché
la diversità culturale è così
essenziale nel nostro mondo sempre più piccolo.
Perché senza la molteplicità di culture,
non siamo in grado di capire come le persone di razze,
religioni o lingue diverse possano condividere gli
stessi sogni e le stesse speranze. Senza un’immaginazione
umana eterogenea non possiamo capire la miriade di
manifestazioni della condizione umana, né apprezzare
l’universalità degli scopi e delle aspirazioni
umane. Ecco perché, come scrittore, sostengo
che la specificità della letteratura costituisce
il miglior antidoto alla globalizzazione dell’immaginazione.
Ad ogni modo, il conflitto fondamentale dei nostri
tempi non è lo scontro tra civiltà,
ma tra dottrine diverse: fondamentalismo religioso
ed etnico da una parte, capitalismo laico e consumistico
dall’altra. Grazie alla globalizzazione, il
mondo si sta concentrando in un unico mercato internazionale
e contemporaneamente è straziato dalla guerra
civile e dallo smembramento delle nazioni.
L’autore Benjamin Barber ha scritto della doppia
prospettiva che l’umanità si trova ad
affrontare definendola “Jihad contro McWorld”:
“Jihad nel nome di cento fedi dalla visione
ristretta contro ogni tipo di interdipendenza…
contro la tecnologia, contro la cultura popolare,
contro i mercati integrati, contro la modernità
in sé e per sé”, in contrasto
con un “McWorld” della globalizzazione
sfrenata, un mondo di “musica veloce, computer
veloci e cibo veloce, con le MTV, i Macintosh e i
McDonald’s che accorpano le nazioni in un unico
parco divertimenti commercialmente omogeneo.”
Sia la Jihad che il McWorld, naturalmente, finiscono
per annullare il nostro bene più prezioso:
la nostra identità.
Ciascuno di noi ha molte identità. A volte
la religione ci obbliga a negare la verità
riguardo alla nostra complessità annullando
la molteplicità insita nella nostra identità.
Il fondamentalismo islamico, in particolare, ha questo
effetto in quanto incarna la passione della pura appartenenza,
una smania intensificata dalla marea minacciosa della
globalizzazione oltre che dalla natura della politica
per il Medio Oriente. Naturalmente c’è
qualcosa di prezioso e pregevole in una fede che permette
a un essere umano di sentirsi tutt’uno con altri
che, in tutto il mondo, tendono le loro mani verso
Dio.
Ma possiamo separare la religione dall’identità?
Possiamo sognare un mondo in cui la religione ha un
posto onorevole ma in cui il bisogno di spiritualità
non sia più associato al bisogno di appartenenza?
Se l’identità potrà essere principalmente
in relazione alla cittadinanza piuttosto che alla
fede, a un paese piuttosto che a una dottrina, e se
questa identità è tale da poter vivere
in armonia con altre identità, allora potremmo
resistere sia alla Jihad che al McWorld.
Per ottenere questo dobbiamo promuovere il pluralismo.
Io sono cresciuto in un’India laica. Essere
laici, in India, non significava essere irreligiosi,
cosa che persino i partiti apertamente atei come i
comunisti o il partito DMK del sud trovavano impopolare
tra i loro elettori; in realtà, nel Durga Puja,
annuale di Calcutta, i partiti comunisti gareggiano
nell’esporre i “pandal” (padiglioni
decorativi, NdT) più sontuosi. Piuttosto,
nella tradizione indiana laicità significava
una moltitudine di religioni, nessuna delle quali
era privilegiata dallo stato.
Ricordo che nel quartiere di Calcutta in cui ho vissuto
gli anni delle scuole superiori, il verso del muezzin
che chiamava alla preghiera i fedeli islamici si fondeva
con il canto dei mantra al tempio indù dedicato
a Shiva e con il suono crepitante degli altoparlanti
fuori dal gurudwara dei sikh che recitavano i versi
del Granth Sahib. E a soli due minuti di distanza,
lungo la mia via, c’era la cattedrale di San
Paolo. Gli studenti, gli impiegati, i funzionari governativi,
erano tutti liberi di indossare turbanti, veli, cappelli,
o qualsiasi altro indumento fosse prescritto dalla
loro religione. Questa è la laicità
indiana: accettare tutti, senza privilegiare nessuno;
niente costituisce l’eccezione, nessuno viene
umiliato. Questa laicità è minacciata
da alcuni oggi in India, ma rimane un retaggio prezioso
per tutti gli indiani.
Il pluralismo può essere protetto soltanto
sostenendo lo sviluppo della democrazia a livello
locale, nazionale e internazionale per creare un contesto
in cui il pluralismo culturale possa fiorire. Dobbiamo
promuovere un’istruzione liberale e di libero
pensiero che apra le menti ovunque piuttosto che chiuderle.
Dobbiamo assumere una posizione di rispetto e umiltà
nell’affrontare gli altri, adoperandoci per
l’inclusione piuttosto che per l’emarginazione.
Quando i terroristi di oggi e domani saranno stati
sconfitti, il nostro mondo dovrà ancora fronteggiare,
per usare un’espressione del Segretario Generale
delle Nazioni Unite Kofi Annan, innumerevoli “problemi
senza passaporto”, i problemi legati alla proliferazione
delle armi di distruzione di massa, del degrado del
nostro ambiente comune, delle malattie contagiose
e della fame cronica, dei diritti umani e dei torti
umani, dell’analfabetismo di massa e dello sfollamento
di massa. Esistono problemi che nessun paese per quanto
potente, può risolvere da solo e che sono inevitabilmente
una responsabilità comune del genere umano.
Essi reclamano a voce spiegata delle soluzioni che,
come i problemi stessi, travalichino le frontiere.
Oggi, che una persona venga da Tubinga o da Tallahassee,
è semplicemente irrealistico ragionare solo
in termini del proprio paese. Le forze globali premono
da ogni possibile direzione; le persone, le merci
e le idee travalicano i confini e coprono distanze
enormi con frequenza, velocità e facilità
sempre maggiori. Internet è emblematico di
un’era in cui ciò che accade nel Sud-Est
asiatico o nella parte meridionale dell’Africa
- dal progresso democratico alla deforestazione, alla
lotta contro l’AIDS – influenza la vita
della Germania. Come è stato detto in relazione
all’inquinamento dell’acqua, viviamo tutti
a valle.
In gran parte del mondo esistono delle società
in cui la ricchezza ha sede nell’anima e non
nel suolo, il cui passato può offrire più
abbondanza del presente, e la cui immaginazione è
più preziosa della tecnologia. Riconoscere
che potrebbe essere così e affermare che l’immaginazione
è basilare per la consapevolezza dell’umanità
della propria dignità tanto quanto la capacità
di mangiare, bere e dormire sotto un tetto, fa parte
della sfida a cui il mondo si trova oggi di fronte.
L’unico modo per assicurarci che questa sfida
verrà raccolta è preservare la libertà
culturale e immaginativa in tutte le società,
garantire che le voci individuali trovino espressione,
che tutte le idee e le forme di arte vengano messe
in condizione di prosperare e di contendersi il loro
posto al sole. In passato abbiamo sentito dire che
il mondo dev’essere assicurato alla democrazia.
Quest’obiettivo sta per essere raggiunto; è
venuto ora il momento di darci da fare per assicurare
il mondo alla diversità.
I terroristi non sono riusciti a vedere le loro vittime
come esseri umani che avevano il diritto alla propria
immaginazione. Hanno visto solo degli oggetti, pegno
superfluo della loro ricerca di distruzione. La nostra
unica risposta efficace dev’essere l’orgogliosa
affermazione della nostra umanità; dire che
ciascuno di noi, chiunque e dovunque siamo, ha il
diritto di vivere, amare, sperare, sognare e aspirare
a un mondo in cui tutti hanno questo diritto.
Un mondo in cui il flagello del terrorismo venga
combattuto, ma in cui vengano combattuti anche i flagelli
della povertà, della carestia, dell’analfabetismo,
della malattia, dell’ingiustizia e dell’insicurezza
umana. Un mondo, in altre parole, in cui il terrore
non avrà modo di prosperare. Potrebbe essere
il mondo del ventunesimo secolo appena nato, e potrebbe
essere l’eredità più densa di
speranza lasciata dall’atto atroce che l’ha
generato.
*I diritti relativi a questo testo appartengono
all'autore, Shashi Tharoor, e all'Internationales
Literaturfestival Berlin.
Chi è Shashi Tharoor:
Nato a Londra nel 1956, Shashi Tharoor ha studiato
a Bombay, Calcutta, Delhi, dove ha conseguito la laurea
in Storia presso il St. Stephen College, e negli Stati
Uniti, dove, a soli 22 anni, ha completato il dottorato
presso la Fletcher School di Legge e Diplomazia della
Tufts University.
Ha lavorato alle Nazioni Unite presso l'Alta Commissione
per i Rifugiati, ed era a capo dell'ufficio di Singapore
durante l'emergenza "boat people". Dall'ottobre
1989 è alto funzionario ONU presso la sede
principale di New York dove, fino al 1996, era responsabile
delle missioni di pace nell'ex Yugoslavia. Dal 1997
al 1998 è stato assistente del Segretario Generale
alle Nazioni Unite Kofi Annan. Nel luglio del '98
è stato nominato Direttore della comunicazione
e dei progetti speciali presso l'ufficio del Segretario
Generale. Dal giugno del 2002 è Sottosegretario
Generale per la Comunicazione e l'Informazione Pubblica
delle Nazioni Unite.
Tharoor è autore di numerosi articoli, racconti
e commentari per riviste indiane e occidentali, e
ha vinto molti premi giornalistici e letterari, fra
cui, nel 1991, il Commonwealth Writer's Prize. Fra
i suoi libri editi in Italia, la satira politica Il
grande romanzo dell'India (1993) e il romanzo
Luci su Bombay (1996), entrambi pubblicati
da Frassinelli.
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