In
una società “flessibile”, la durata
di ogni esperienza umana si accorcia sempre più,
e allora il pranzo si fa il più delle volte
“fast food”, e gli amori sono sempre meno
eterni. Ad aver strutturato così la società
contemporanea è senza dubbio il nuovo mondo
del lavoro, una dimensione in continua rivoluzione
che non assicura più, a giovani e meno giovani,
un futuro certo. Se il cittadino-lavoratore non sa
oggi dove e quanto e come (e se) lavorerà domani,
sono due le parole magiche che possono aiutarlo a
sopravvivere in tanta precarietà: “educazione
permanente”.
Il cursus educativo di una volta poteva andare
bene nell’epoca del posto fisso. Le nozioni
assunte alle scuole superiori e all’università,
magari rafforzate dalla pratica concreta sul luogo
di lavoro, potevano bastare a garantire la preparazione
di chi per tutta la vita si ritrovava ad espletare
la stessa funzione, tanto più in un mondo sostanzialmente
stabile, in cui l’aggiornamento non era vitale.
Oggi non è più così. Le nuove
tecnologie, ad esempio, che hanno rivoluzionato la
nostra società, continuano a rigenerarsi a
velocità sempre maggiori.
Pertanto chi possiede già un lavoro si vede
costretto, anche solo per rimanere dov’è,
ad un aggiornamento continuo. E chi ha appena concluso
il cursus scolastico tradizionale si rende
conto che, se vuole essere almeno un po’ padrone
del proprio futuro, deve intraprendere nuovi studi,
perché la laurea, che un tempo era un segno
di eccellenza, oggi il più delle volte non
basta più, e i call center pullulano
di laureati.
Gli
Stati Uniti da tempo si confrontano con spregiudicatezza
con questo mondo flessibile e di formazione permanente,
mondo che in pratica hanno creato loro. L’Unione
Europea si è posta, al Consiglio di Lisbona,
obiettivi molto ambiziosi: per il 2010, l’80%
della popolazione compresa tra i 15 e i 64 anni dovrà
possedere un titolo di scuola secondaria superiore
e il 10% della popolazione adulta dovrà poter
usufruire ogni anno di corsi di formazione permanente.
L’Europa è ovviamente più sensibile
dell’America all’impatto sociale di questa
rivoluzione infinita, e il Nord del continente ha
dato prova di saper coniugare con successo welfare
e flessibilità.
L’Italia, al contrario, è rimasta alla
mentalità del posto fisso. Sarà che
il nostro è un paese in cui la raccomandazione
ha troppo spesso prevalso sul merito, e in cui la
filosofia della concorrenza non riscuote molto successo
(basti pensare a come venivano decisi gli appalti
negli anni di Tangentopoli, e all’attuale sistema
televisivo). Gli adulti, che d’altronde in un
mondo così flessibile non sono nati, fanno
difficoltà ad adattarsi. I giovani, invece,
troppo spesso sperano nella “spintarella”
più che investire nella propria formazione.
Ecco allora perché ogni anno i dati sulla diffusione
dell’educazione permanente in Italia dipingono
lo stesso scoraggiante quadro. Anche quest’anno
siamo al quart’ultimo posto tra i paesi Ocse,
vicini ai dati di paesi, come la Grecia e la Turchia,
che certo (con tutto il rispetto per quei popoli e
quei mari) non possono essere un modello per la quinta
potenza industriale del mondo. Lo stesso ci dice il
recentissimo rapporto dell’Isfol (Istituto per
lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori,
ente pubblico che opera in collaborazione con il Ministero
del Lavoro, le Regioni, le Parti Sociali e l’Unione
Europea), secondo il quale il 60% della popolazione
in età lavorativa possiede solo il titolo di
licenza elementare o media, non naviga in Internet
e non partecipa ai processi di formazione continua.
Solo il 17% degli adulti, afferma l’Isfol, ha
svolto un’attività di formazione negli
ultimi due anni e sono ancora troppi i giovani che
lasciano il sistema formativo senza aver conseguito
un diploma o una qualifica professionale.
A lanciare l’ennesimo inascoltato allarme è
stato anche quest’anno il professor Saverio
Avveduto, Presidente dell’Unione Nazionale per
la Lotta contro l’Analfabetismo (Unla), associazione
indipendente affiliata all’Unesco che vent’anni
fa ha istituito l’Università di Castel
Sant'Angelo (Ucsa) per l'educazione permanente. In
occasione dell’apertura dell’anno scolastico,
ufficializzata con un incontro svoltosi la settimana
scorsa nella Sala della Protomoteca in Campidoglio,
il professor Avveduto ha detto che “all’Italia
manca il secondo gradino” dell’educazione,
quello che va dai 25 ai 65 anni, e che purtroppo è
una “novità non nuova, lo stato comatoso
dell’educazione permanente in Italia”
come viene fotografato dai recenti dati Ocse.
Tra questi spicca anche la percentuale del personale
altamente qualificato, del numero di ricercatori di
alto livello in relazione alla popolazione attiva:
anche qui siamo abbondantemente sotto la media Ocse,
siamo un “paese arretrato”. L’assessore
della Provincia di Roma alle Politiche della Scuola,
Daniela Monteforte, presente all’incontro, ha
polemicamente ricordato l’intervento del Presidente
del Consiglio a Wall Street, in cui invitava ad investire
in Italia perché da noi ci sono “belle
segretarie”: “Un paese culturalmente e
scientificamente più avanzato – ha dichiarato
l’assessore - attrarrebbe più investitori
stranieri”.
Il professor Avveduto non ha voluto polemizzare con il governo, verso il quale si era
alzato proprio il giorno prima l’ennesimo grido
di allarme del Presidente dei Rettori italiani Piero
Tosi, ma ha indirettamente rimproverato le istituzioni,
incapaci di cogliere la “fase di bulimia della
cultura italiana, testimoniata dal successo dei recenti
festival di letteratura e filosofia, e delle letture
dantesche di Vittorio Sermonti”.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it