238 - 18.10.03


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Un’Italia da bassa classifica

Daniele Castellani Perelli


In una società “flessibile”, la durata di ogni esperienza umana si accorcia sempre più, e allora il pranzo si fa il più delle volte “fast food”, e gli amori sono sempre meno eterni. Ad aver strutturato così la società contemporanea è senza dubbio il nuovo mondo del lavoro, una dimensione in continua rivoluzione che non assicura più, a giovani e meno giovani, un futuro certo. Se il cittadino-lavoratore non sa oggi dove e quanto e come (e se) lavorerà domani, sono due le parole magiche che possono aiutarlo a sopravvivere in tanta precarietà: “educazione permanente”.

Il cursus educativo di una volta poteva andare bene nell’epoca del posto fisso. Le nozioni assunte alle scuole superiori e all’università, magari rafforzate dalla pratica concreta sul luogo di lavoro, potevano bastare a garantire la preparazione di chi per tutta la vita si ritrovava ad espletare la stessa funzione, tanto più in un mondo sostanzialmente stabile, in cui l’aggiornamento non era vitale. Oggi non è più così. Le nuove tecnologie, ad esempio, che hanno rivoluzionato la nostra società, continuano a rigenerarsi a velocità sempre maggiori.

Pertanto chi possiede già un lavoro si vede costretto, anche solo per rimanere dov’è, ad un aggiornamento continuo. E chi ha appena concluso il cursus scolastico tradizionale si rende conto che, se vuole essere almeno un po’ padrone del proprio futuro, deve intraprendere nuovi studi, perché la laurea, che un tempo era un segno di eccellenza, oggi il più delle volte non basta più, e i call center pullulano di laureati.

Gli Stati Uniti da tempo si confrontano con spregiudicatezza con questo mondo flessibile e di formazione permanente, mondo che in pratica hanno creato loro. L’Unione Europea si è posta, al Consiglio di Lisbona, obiettivi molto ambiziosi: per il 2010, l’80% della popolazione compresa tra i 15 e i 64 anni dovrà possedere un titolo di scuola secondaria superiore e il 10% della popolazione adulta dovrà poter usufruire ogni anno di corsi di formazione permanente. L’Europa è ovviamente più sensibile dell’America all’impatto sociale di questa rivoluzione infinita, e il Nord del continente ha dato prova di saper coniugare con successo welfare e flessibilità.

L’Italia, al contrario, è rimasta alla mentalità del posto fisso. Sarà che il nostro è un paese in cui la raccomandazione ha troppo spesso prevalso sul merito, e in cui la filosofia della concorrenza non riscuote molto successo (basti pensare a come venivano decisi gli appalti negli anni di Tangentopoli, e all’attuale sistema televisivo). Gli adulti, che d’altronde in un mondo così flessibile non sono nati, fanno difficoltà ad adattarsi. I giovani, invece, troppo spesso sperano nella “spintarella” più che investire nella propria formazione.

Ecco allora perché ogni anno i dati sulla diffusione dell’educazione permanente in Italia dipingono lo stesso scoraggiante quadro. Anche quest’anno siamo al quart’ultimo posto tra i paesi Ocse, vicini ai dati di paesi, come la Grecia e la Turchia, che certo (con tutto il rispetto per quei popoli e quei mari) non possono essere un modello per la quinta potenza industriale del mondo. Lo stesso ci dice il recentissimo rapporto dell’Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori, ente pubblico che opera in collaborazione con il Ministero del Lavoro, le Regioni, le Parti Sociali e l’Unione Europea), secondo il quale il 60% della popolazione in età lavorativa possiede solo il titolo di licenza elementare o media, non naviga in Internet e non partecipa ai processi di formazione continua. Solo il 17% degli adulti, afferma l’Isfol, ha svolto un’attività di formazione negli ultimi due anni e sono ancora troppi i giovani che lasciano il sistema formativo senza aver conseguito un diploma o una qualifica professionale.

A lanciare l’ennesimo inascoltato allarme è stato anche quest’anno il professor Saverio Avveduto, Presidente dell’Unione Nazionale per la Lotta contro l’Analfabetismo (Unla), associazione indipendente affiliata all’Unesco che vent’anni fa ha istituito l’Università di Castel Sant'Angelo (Ucsa) per l'educazione permanente. In occasione dell’apertura dell’anno scolastico, ufficializzata con un incontro svoltosi la settimana scorsa nella Sala della Protomoteca in Campidoglio, il professor Avveduto ha detto che “all’Italia manca il secondo gradino” dell’educazione, quello che va dai 25 ai 65 anni, e che purtroppo è una “novità non nuova, lo stato comatoso dell’educazione permanente in Italia” come viene fotografato dai recenti dati Ocse.

Tra questi spicca anche la percentuale del personale altamente qualificato, del numero di ricercatori di alto livello in relazione alla popolazione attiva: anche qui siamo abbondantemente sotto la media Ocse, siamo un “paese arretrato”. L’assessore della Provincia di Roma alle Politiche della Scuola, Daniela Monteforte, presente all’incontro, ha polemicamente ricordato l’intervento del Presidente del Consiglio a Wall Street, in cui invitava ad investire in Italia perché da noi ci sono “belle segretarie”: “Un paese culturalmente e scientificamente più avanzato – ha dichiarato l’assessore - attrarrebbe più investitori stranieri”.

Il professor Avveduto non ha voluto polemizzare con il governo, verso il quale si era alzato proprio il giorno prima l’ennesimo grido di allarme del Presidente dei Rettori italiani Piero Tosi, ma ha indirettamente rimproverato le istituzioni, incapaci di cogliere la “fase di bulimia della cultura italiana, testimoniata dal successo dei recenti festival di letteratura e filosofia, e delle letture dantesche di Vittorio Sermonti”.


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