Enrico
Letta, L'allargamento dell'Unione europea, Il Mulino,
2003, pp. 128, Euro 8,00
Dal primo maggio 2004 gli Stati membri dell’Unione
europea diventeranno venticinque. Ai quindici attuali
si aggiungeranno Cipro, Repubblica Ceca, Estonia,
Slovenia, Polonia, Ungheria, Malta, Lettonia, Lituania
e Slovacchia. E nel 2007 sarà la volta di Romania,
Bulgaria e – se tutto procederà secondo
le previsioni – Turchia. In un frangente così
delicato, con la nuova Costituzione alle porte e il
Vecchio Continente in bilico tra passato e futuro,
il parlamentare ed ex ministro Enrico Letta ci spiega,
in un breve saggio edito da Il Mulino, L’allargamento
dell’Unione europea, le profonde implicazioni
di questo prossimo allargamento, ripercorrendo le
tappe di quelli che l’hanno preceduto per poi
analizzare le fasi di “quest’ultimo importante
capitolo dell’avventura comunitaria”.
Quello che ci stiamo preparando ad affrontare –
osserva Letta – è il quinto di una serie
progressiva di processi di unificazione e integrazione
che hanno visto l’ingresso nell’Ue dapprima
di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca (nel 1973),
poi di Grecia (nel 1981), Spagna e Portogallo (nel
1986) e infine di Svezia, Austria e Finlandia (nel
1995). Ognuno di questi allargamenti ha comportato
una profonda riorganizzazione delle risorse interne
dell’Unione e la risoluzione di diversi problemi,
di natura sia politica che economica.
Difficile
trovare un equilibrio nei rapporti di potere: tra
Stati neutrali e non, ad alta o bassa densità
abitativa, a vocazione agricola o industrializzati;
ci sono poi quelli maggiormente inclini ad aderire
alle direttive comunitarie e quelli che invece, come
la Gran Bretagna, preferivano mantenersi in una posizione
più defilata, con una scelta di apparente autoesclusione
che finiva per suscitare un atteggiamento di particolare
diffidenza, se non di aperta opposizione, negli altri.
Il panorama attuale, però, è ancora
più complesso: dopo l’implosione dell’Unione
Sovietica, il disfacimento della Jugoslavia e la crisi
in Albania, l’Europa oggi si sta aprendo a Est,
apprestandosi ad accogliere paesi “ex nemici”
e ad avvicinarsi ai Balcani occidentali, offrendo
a questa martoriata regione una prospettiva d’integrazione
di lungo periodo. L’eccezionalità dell’avvenimento
è testimoniata dai numeri: ottanta milioni
di persone sono pronte a fare il loro ingresso nell’Unione.
Ma – quel che più importa – il
presente allargamento si distingue del tutto dai precedenti
per l’eredità politico-culturale che
i paesi dell’Europa centro-orientale portano
con sé: per loro la transizione alla democrazia
- requisito indispensabile per l’adesione -
riguarda sia la questione delle libertà e del
pluralismo politico che il difficile passaggio a una
libera economia di mercato. Si tratta di creare infrastrutture
idonee, di realizzare reti di trasporto oggi pressoché
inesistenti, di approntare un sistema legislativo
in grado di tutelare le minoranze così diffuse
in questi paesi ma anche di proteggere gli altri Stati
membri dell’Ue dal delirio di un’immigrazione
senza freni, di arginare la corruzione, di incentivare
un adeguato sviluppo dell’economia e in particolare
del terziario.
Per non parlare, poi, del fatto che i delicati rapporti
esistenti tra i vari paesi candidati e tra essi e
gli Stati già membri dell’Ue sollevano,
in alcuni casi, questioni spinose. Prendete, per esempio,
il problema della contemporanea candidatura della
Turchia e di Cipro. Nel 1974, all’indomani di
un colpo di stato sponsorizzato dal regime dei “colonnelli”
greci, la parte settentrionale dell’isola di
Cipro è finita sotto il controllo dei turchi,
che l’hanno proclamata stato indipendente riconosciuto
solo dal governo di Ankara. Un po’ antipatico
essere in lizza per l’ingresso nell’Unione
con chi ha letteralmente “spaccato in due”
la terra dove vivi… senza contare che la Turchia
è un paese islamico (per il 99,8 per cento
della popolazione) dove fino a poco tempo fa era ancora
in vigore la pena di morte e che, in caso di adesione,
sarebbe il secondo Stato più popoloso dell’Unione
dopo la Germania. Ma è anche vero che è
membro della Nato e, grazie alla sua posizione geopolitica,
ha un’importanza strategica fondamentale, come
recentemente dimostrato.
E non c’è solo il problema di chi vuole
entrare nel’Ue. C’è anche quello
di chi non ci pensa proprio, come i russi dell’enclave
di Kaliningrad, appena un milione di persone separate
dalla madrepatria da quattrocento chilometri di terra
straniera, che dopo l’allargamento si ritroveranno
completamente circondate dall’Europa e che,
per entrare nel loro paese, rischiano di doversi munire
di una specie di visto o, alla meno peggio, di doversi
far “deportare” da e verso casa su treni
e bus senza fermate intermedie secondo orari e itinerari
concordati.
Quante gatte da pelare per estendere il mercato unico,
aumentare la competizione, ottimizzare i flussi internazionali
di merci, persone, capitali e tecnologie! Forse, in
fin dei conti, la proposta (purtroppo lasciata cadere
nel vuoto) avanzata dall’allora presidente francese
Mitterand all’indomani della caduta del muro
di Berlino di instaurare una nuova forma di membership,
a metà strada tra l’adesione e l’accordo
di associazione, avrebbe potuto rendere politicamente
meno affannoso questo percorso.
Ma quell’intuizione può ancora essere
recuperata. È questa l’opinione di Romano
Prodi, che con il suo progetto Everything but institutions
rilancia oggi l’ipotesi di “una politica
di vicinato (a prescindere dall’effettiva volontà
di adesione) come chiave di stabilità per l’Unione”.
Una strada da non sottovalutare, per prepararsi adeguatamente
agli allargamenti del futuro e all’effettiva
costruzione di “uno spazio economico europeo
comune”, dalla Russia ai Balcani, dal Circolo
polare artico al Mar Nero.
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