237 - 04.10.03


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Ad Est, ad Est

Chiara Rizzo


Enrico Letta, L'allargamento dell'Unione europea, Il Mulino, 2003, pp. 128, Euro 8,00

Dal primo maggio 2004 gli Stati membri dell’Unione europea diventeranno venticinque. Ai quindici attuali si aggiungeranno Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Slovenia, Polonia, Ungheria, Malta, Lettonia, Lituania e Slovacchia. E nel 2007 sarà la volta di Romania, Bulgaria e – se tutto procederà secondo le previsioni – Turchia. In un frangente così delicato, con la nuova Costituzione alle porte e il Vecchio Continente in bilico tra passato e futuro, il parlamentare ed ex ministro Enrico Letta ci spiega, in un breve saggio edito da Il Mulino, L’allargamento dell’Unione europea, le profonde implicazioni di questo prossimo allargamento, ripercorrendo le tappe di quelli che l’hanno preceduto per poi analizzare le fasi di “quest’ultimo importante capitolo dell’avventura comunitaria”.

Quello che ci stiamo preparando ad affrontare – osserva Letta – è il quinto di una serie progressiva di processi di unificazione e integrazione che hanno visto l’ingresso nell’Ue dapprima di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca (nel 1973), poi di Grecia (nel 1981), Spagna e Portogallo (nel 1986) e infine di Svezia, Austria e Finlandia (nel 1995). Ognuno di questi allargamenti ha comportato una profonda riorganizzazione delle risorse interne dell’Unione e la risoluzione di diversi problemi, di natura sia politica che economica.

Difficile trovare un equilibrio nei rapporti di potere: tra Stati neutrali e non, ad alta o bassa densità abitativa, a vocazione agricola o industrializzati; ci sono poi quelli maggiormente inclini ad aderire alle direttive comunitarie e quelli che invece, come la Gran Bretagna, preferivano mantenersi in una posizione più defilata, con una scelta di apparente autoesclusione che finiva per suscitare un atteggiamento di particolare diffidenza, se non di aperta opposizione, negli altri.

Il panorama attuale, però, è ancora più complesso: dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, il disfacimento della Jugoslavia e la crisi in Albania, l’Europa oggi si sta aprendo a Est, apprestandosi ad accogliere paesi “ex nemici” e ad avvicinarsi ai Balcani occidentali, offrendo a questa martoriata regione una prospettiva d’integrazione di lungo periodo. L’eccezionalità dell’avvenimento è testimoniata dai numeri: ottanta milioni di persone sono pronte a fare il loro ingresso nell’Unione.

Ma – quel che più importa – il presente allargamento si distingue del tutto dai precedenti per l’eredità politico-culturale che i paesi dell’Europa centro-orientale portano con sé: per loro la transizione alla democrazia - requisito indispensabile per l’adesione - riguarda sia la questione delle libertà e del pluralismo politico che il difficile passaggio a una libera economia di mercato. Si tratta di creare infrastrutture idonee, di realizzare reti di trasporto oggi pressoché inesistenti, di approntare un sistema legislativo in grado di tutelare le minoranze così diffuse in questi paesi ma anche di proteggere gli altri Stati membri dell’Ue dal delirio di un’immigrazione senza freni, di arginare la corruzione, di incentivare un adeguato sviluppo dell’economia e in particolare del terziario.

Per non parlare, poi, del fatto che i delicati rapporti esistenti tra i vari paesi candidati e tra essi e gli Stati già membri dell’Ue sollevano, in alcuni casi, questioni spinose. Prendete, per esempio, il problema della contemporanea candidatura della Turchia e di Cipro. Nel 1974, all’indomani di un colpo di stato sponsorizzato dal regime dei “colonnelli” greci, la parte settentrionale dell’isola di Cipro è finita sotto il controllo dei turchi, che l’hanno proclamata stato indipendente riconosciuto solo dal governo di Ankara. Un po’ antipatico essere in lizza per l’ingresso nell’Unione con chi ha letteralmente “spaccato in due” la terra dove vivi… senza contare che la Turchia è un paese islamico (per il 99,8 per cento della popolazione) dove fino a poco tempo fa era ancora in vigore la pena di morte e che, in caso di adesione, sarebbe il secondo Stato più popoloso dell’Unione dopo la Germania. Ma è anche vero che è membro della Nato e, grazie alla sua posizione geopolitica, ha un’importanza strategica fondamentale, come recentemente dimostrato.

E non c’è solo il problema di chi vuole entrare nel’Ue. C’è anche quello di chi non ci pensa proprio, come i russi dell’enclave di Kaliningrad, appena un milione di persone separate dalla madrepatria da quattrocento chilometri di terra straniera, che dopo l’allargamento si ritroveranno completamente circondate dall’Europa e che, per entrare nel loro paese, rischiano di doversi munire di una specie di visto o, alla meno peggio, di doversi far “deportare” da e verso casa su treni e bus senza fermate intermedie secondo orari e itinerari concordati.

Quante gatte da pelare per estendere il mercato unico, aumentare la competizione, ottimizzare i flussi internazionali di merci, persone, capitali e tecnologie! Forse, in fin dei conti, la proposta (purtroppo lasciata cadere nel vuoto) avanzata dall’allora presidente francese Mitterand all’indomani della caduta del muro di Berlino di instaurare una nuova forma di membership, a metà strada tra l’adesione e l’accordo di associazione, avrebbe potuto rendere politicamente meno affannoso questo percorso.

Ma quell’intuizione può ancora essere recuperata. È questa l’opinione di Romano Prodi, che con il suo progetto Everything but institutions rilancia oggi l’ipotesi di “una politica di vicinato (a prescindere dall’effettiva volontà di adesione) come chiave di stabilità per l’Unione”. Una strada da non sottovalutare, per prepararsi adeguatamente agli allargamenti del futuro e all’effettiva costruzione di “uno spazio economico europeo comune”, dalla Russia ai Balcani, dal Circolo polare artico al Mar Nero.


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