In
passato, il contatto fra i membri di una comunità
avveniva in un ambiente fisico condiviso. Oggi non
è più così. La diffusione delle
tecnologie della comunicazione ha modificato la geografia
sociale, creando un contesto comune non più
tangibile, una piazza immaginaria nella quale l’aggregazione
passa attraverso la risposta emotiva. La televisione
è stata il tramite fondamentale di questa rivoluzione.
Attualmente, sette case su dieci dell’intero
pianeta sono dotate di almeno un apparecchio televisivo,
e lo squilibrio tra sacche di arretratezza e regioni
mediaticamente più sviluppate non è
più così netto: l’America del
Nord e l’Europa occidentale hanno solo il trenta
per cento dell’utenza globale, e in paesi come
la Cina, l’India o l’Europa dell’Est,
si sono verificati dei veri e propri boom del settore,
con incrementi fino al 1500 per cento.
La tv ha spalancato davanti ai nostri occhi una finestra
planetaria, ha aumentato la presenza e violato i limiti
dell’ubiquità.. Forse ha omologato e
uniformato al più basso livello l’immaginario
collettivo ma, rendendoci più simili l’uno
all’altro, sicuramente ci ha aiutati a convivere.
Essa è un medium generalista per natura: rivolgersi
a un universo di individui mettendoli in relazione
tra loro fa parte del suo Dna. Ma questa sua funzione
di collante si è significativamente evoluta
nel tempo: nuove e diverse forme di partecipazione
sono andate ad aggiungersi ai vecchi tipi di identità,
integrandoli senza cancellarli.
All’inizio, la dimensione prevalente del tubo
catodico è stata quella nazionale, sia per
ragioni tecniche (le onde hertziane viaggiano in linea
retta e sono quindi vincolate alla conformazione del
territorio) che politico-strutturali (il sistema televisivo
ha avuto evoluzioni diverse a seconda dei vari paesi
e delle varie culture in cui si è inserito).
Questo medium ha alfabetizzato intere nazioni, ha
creato la consuetudine a una lingua comune e svolto
un’importante funzione di rottura, aumentando
la consapevolezza dell’altro da sé e
stimolando il confronto.
Le
trasmissioni e i personaggi, d’intrattenimento
e non, affermatisi in quella prima fase, hanno avuto
successo proprio facendo leva sul senso di appartenenza
nazional-popolare. In Italia, per esempio, programmi
come Carosello, eventi come Sanremo,
protagonisti come il maestro Manzi o i Tognazzi e
Vianello di Un, due e tre, non avrebbero
mai potuto prescindere dal sostrato simbolico e culturale
specifico del nostro paese. E la stessa contemporanea
diffusione dell’American Dream attraverso format
come Lascia o Raddoppia? (The $64,000
Question) o Il Musichiere (Name
That Tune), peraltro nazionalizzati dalla presenza
di figure tipicamente italiane come Mario Riva o normali
e rassicuranti come Mike Buongiorno, va vista essenzialmente
come spinta al miglioramento della “propria”
realtà, che si auspicava potesse eguagliare
il modello statunitense, fatto di società aperta,
felicità privata e benessere economico.
Più tardi, con il dilagare dell’iniziativa
privata votata all’intrattenimento e finanziata
dalla pubblicità, e l’introduzione della
logica dell’audience, a cui anche il servizio
pubblico si è dovuto adeguare per non soccombere
alla concorrenza, le cose sono un po’ cambiate.
Innanzitutto, una volta “esaurita” la
funzione pedagogica di creazione dell’identità
nazionale, il sistema televisivo italiano si è
aperto al mondo e all’altra significativa peculiarità
di questo mezzo, che è quella di rendere accessibili,
e quindi prossimi, anche gli eventi più straordinari
e lontani: l’atterraggio dell’uomo sulla
Luna, i funerali di Lady Diana, ma anche le guerre,
o le esecuzioni di condannati a morte all’altro
capo del mondo. Si trattava, però, sempre di
una collettività mediatica eterogenea.
Solo progressivamente, con l’inarrestabile avanzata
della componente commerciale, i palinsesti hanno iniziato
a riflettere delle scelte di marketing. E chi dice
marketing, dice target. “Target”, in inglese,
significa “bersaglio”, e chiunque abbia
una certa dimestichezza con le armi, sa che per centrare
un obiettivo bisogna prima inquadrarlo esattamente
nel mirino. Questo, nel nostro caso, vuol dire che
più il pubblico a cui ci rivolgiamo è
circoscritto e omogeneo per gusti, formazione e attitudini,
più sarà facile fidelizzarlo e legarlo
a noi. Sempre rimanendo in Italia, ci ha provato Mediaset,
differenziando le programmazioni delle sue tre reti,
rivolgendo prevalentemente Canale 5 a un pubblico
più composito, Retequattro alle casalinghe
e Italia 1 ai giovani.
Ma il vero e proprio salto qualitativo si è
avuto con lo sviluppo tecnologico del cavo e del satellite
che, attraverso la moltiplicazione dell’offerta
tematica, hanno segmentato il villaggio televisivo
globale in un arcipelago di comunità d’interessi,
alla costante ricerca della rassicurante sensazione
di far parte di un branco. È un po’ una
forma attenuata di religione, e questo spiega il recente
successo dei canali sportivi e musicali diffusi in
tutto il mondo. Uno stadio di tifosi urlanti o di
ragazzi che inneggiano a una star è come una
chiesa: un gruppo in cui si genera un’emozione
che trascende i singoli individui, infondendo energia
in tutti i partecipanti. E i canali che cercano di
riprodurre quel sentimento dovranno puntare a ricreare
l’evento: non è un semplice problema
di contenuti, ma anche una questione di stile, di
organizzazione, di ritmo. Prendete il caso di Mtv:
i veejay parlano lingue diverse, la selezione dei
video varia a seconda delle classifiche discografiche
nazionali, ma il look e il modo di condurre sono inconfondibili.
Chiunque, facendo zapping, riconoscerebbe la marca
globale dell’emittente. Lo stesso vale per Espn
e altri canali sportivi, agevolati dal fatto che ogni
disciplina ha dinamiche e tempi specifici che facilmente
possono porsi come “segno distintivo”.
E la regola non funziona solo nel settore dell’intrattenimento.
Anche le reti d’informazione hanno saputo crearsi
una propria peculiarità: la Cnn ha fatto dell’aggiornamento
in tempo reale e delle immagini trasmesse in diretta
un punto di forza che ha dimostrato tutto il suo potenziale
in occasione dell’attentato alle Torri Gemelle
e dei conflitti più recenti. Per non parlare
dei canali per ragazzi, il cui target è ben
delimitato non solo dall’interesse per un certo
tipo di programmi, ma anche dalla fascia generazionale
che di tale interesse è il primo e più
importante vettore.
Nella segmentazione del pubblico, molti studiosi
hanno riscontrato un segno della crisi del mezzo televisivo
che, seguendo e agevolando la diversificazione dell’audience,
avrebbe rinunciato al proprio status di istituzione
autorevole e ampiamente legittimata, ritornando fra
i ranghi. Un medium fra gli altri, una goccia nell’oceano.
L’immagine televisiva, oggi, è per alcuni
una semplice tessera nel mosaico dell’immaginario
individuale, in cui realtà e finzione sempre
più si confondono. L’esperienza sociale
si è ormai definitivamente personalizzata.
Grazie alle sue infinite terminazioni tecnologiche
(dal mouse al telecomando al joystick), ognuno di
noi sarebbe potenzialmente in grado di entrare in
contatto con tutto il mondo, ma con la possibilità
di staccare la spina in qualsiasi momento, per isolarsi
nel suo specifico ambiente materiale e simbolico.
Ma non è detto che la vecchia tv di massa
sia ormai con un piede nella fossa. È vero
che il suo pubblico mostra segni di stanchezza e disaffezione
(non è un caso che in vari paesi, dall’America
alla stessa Italia, si sia recentemente verificato
un calo di ascolti anche in prima serata). È
vero, che pur sotto una maschera di ampia scelta,
le reti tradizionali ormai sanno solo clonare se stesse.
Ma è anche vero che il broadcasting continuerà
a essere uno strumento insostituibile per una fruizione
collettiva e istantanea degli eventi, sul piano locale
(prendete il recente funerale di Alberto Sordi, o
la santificazione di Padre Pio) e su quello internazionale
(come nel caso del crollo del World Trade Center o
dell’ultimatum di Bush a Saddam).
D’altra parte, sarebbe sbagliato anche cadere
nella miopia opposta, e credere che tutto possa rimanere
com’è. Nell’ultimo decennio, i
soli canali tematici analogici (l’offerta digitale
è infatti ancora superiore, potenzialmente
quasi illimitata) sono arrivati a essere più
di ottanta in Nord America e più di sessanta
in Europa e in Asia. E in molti paesi emergenti, la
digitalizzazione e la tematizzazione bruciano le tappe
con una velocità fino a poco tempo fa inimmaginabile.
Ma la permeabilità della televisione alle telecomunicazioni
e all’informatica non è sinonimo di annientamento:
non esistono bacchette magiche, quando ci si riferisce
ai comportamenti sociali.
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