L'intervista
che segue apre "La tela di Prodi. Una Costituzione
per un’Europa più democratica",
a cura di Giuseppe Tognon, appena pubblicato da Baldini&Castoldi.
Il volume contiene saggi di Tognon, Vladimiro Giacché,
Stefano Ceccanti, Paolo Russo Caia e Francesco Clement
Presidente, il 4 dicembre 2002 lei ha presentato
alla Commissione il progetto per una Costituzione
europea che tra gli addetti ai lavori è circolato
con il nome di Penelope, un nome che evoca fedeltà,
tenacia, accortezza. Ne "La tela di Prodi. Una
Costituzione per un'Europa più democratica"
(Baldini&Castoldi), noi pubblichiamo il testo
in italiano e cerchiamo di spiegare ai lettori perché
il progetto è importante e soprattutto qual
è il suo significato politico. Abbiamo saputo
dai giornali e dalle voci di corridoio di Bruxelles
che quella riunione del 4 dicembre è stata
tempestosa. Subito dopo si è aperto anche sulla
grande stampa internazionale un potente fuoco di sbarramento.
Ripensando a quei giorni che cosa ha da dire oggi?
Si aspettava un’accoglienza diversa?
È vero, al momento della sua pubblicazione
il progetto Penelope non ha ricevuto una calorosa
accoglienza. Ho però l’impressione che
la maggior parte delle critiche fossero del tutto
strumentali, nella logica del «tiro al bersaglio
della Commissione» che è propria di certi
ambienti: queste me le aspettavo. Le contestazioni
non prevenute sono state invece, a mio parere, frutto
di malintesi nel frattempo chiariti. Per esempio,
promuovendo il progetto Penelope non ho inteso affatto
porre la Commissione in competizione con la Convenzione
– di cui sono stato fin dall’inizio uno
dei più strenui sostenitori –, ma piuttosto
fornire un solido contributo per la riflessione ulteriore
dei suoi membri, al pari di altri progetti di Costituzione
che sono stati resi pubblici nel corso del 2002, per
esempio il testo del Partito popolare europeo presentato
da Elmar Brok o il contributo redatto dall’Università
di Oxford e presentato da Peter Hain a nome del governo
britannico.
Inoltre, è inesatto affermare che il progetto
Penelope è stato ripudiato dalla Commissione,
in quanto non ho mai pensato di chiedere agli altri
Commissari di adottare formalmente questo testo, avendo
sempre considerato che le posizioni ufficiali della
Commissione dovessero avere un carattere squisitamente
politico e istituzionale, alla stregua delle due comunicazioni
presentate nel maggio e nel dicembre 2002. Mi pare
comunque opportuno rilevare che le critiche si sono
concentrate esclusivamente sul metodo di preparazione.
Passato un breve periodo di decantazione, molti lettori
hanno finalmente scoperto il vero contenuto del progetto
Penelope; da allora mi pare di non aver più
udito molte critiche, ma, al contrario, elogi e attestati
di apprezzamento. Sono convinto che la qualità
e la coerenza del risultato finale si debbano, almeno
in parte, alla riservatezza che ha caratterizzato
la preparazione del testo, riservatezza che era stata
così contestata al momento della pubblicazione
del progetto.
Ricordo che in quei giorni dissi ai miei collaboratori
che, dopo un parto difficile, presto molti avrebbero
reclamato la paternità, o almeno la parentela,
di Penelope. I fatti cominciano a darmi ragione, visto
che alcuni autorevoli esponenti della Convenzione
sempre più spesso fanno riferimento a soluzioni
proposte per la prima volta nel nostro progetto.
Nel testo di Penelope avete ripreso il preambolo
del vecchio trattato CECA che si apre con un’affermazione
che non potrebbe essere più attuale: «Considerando
che la pace mondiale può essere difesa soltanto
attraverso un impegno creativo commisurato ai pericoli
che la minacciano…» Che cosa può
significare oggi essere creativi per la pace futura?
Dopo cinquant’anni, il trattato CECA è
giunto al termine della sua durata legale. Tuttavia,
le idee fondatrici solennemente espresse nel suo preambolo
hanno ancora oggi grande attualità e continueranno
ad averla in futuro. L’ambizione dei padri fondatori
di condividere il nostro destino per creare uno spazio
di pace, di stabilità e di prosperità
– l’ambizione dell’Europa del dopoguerra
– è tuttora valida nel nostro continente
che sarà presto unificato.
In questo momento di grave crisi internazionale, tuttavia,
non possiamo guardare ai successi dell’integrazione
europea come a un punto di arrivo. Al contrario, essi
devono continuare a ispirare le nostre ambizioni spingendoci
ad assumere un ruolo attivo nella promozione di sicurezza
e stabilità per tutto il continente.
La guerra in Iraq tocca profondamente noi europei,
perché la riconciliazione e la pace sono la
storia e il fondamento stesso dell’Europa. L’Unione
si basa sui valori comuni di democrazia, stato di
diritto, rispetto per l’identità di ciascuno
e i diritti delle minoranze, e sul comune desiderio
di pace e stabilità. Il suo obiettivo principale
è sempre stato salvaguardare la pace in Europa
e lavorare per la stabilità in un mondo esposto
a guerre e discordie, e questo assume oggi un’importanza
più che mai evidente.
Svolgere un ruolo creativo per garantire la pace in
Europa significa dunque affrontare le sfide del futuro,
in primis il processo di allargamento, con una strategia
precisa e nel rispetto dei nostri valori fondanti.
Dobbiamo affermare con chiarezza che i confini dell’Unione
allargata non sono concepiti come nuovi muri ma come
aree di cooperazione per azioni congiunte nel quadro
di strategie comuni. L’Unione non ha bisogno
di nuove divisioni, né vuole divenire una «fortezza».
Al contrario, l’UE ha bisogno di un «anello
di amici» ai suoi confini, dalla Russia fino
alle rive del Mediterraneo, e deve offrir loro qualcosa
che vada oltre l’attuale partenariato, pur non
trattandosi di un’adesione piena. Questo è
ciò che io chiamo «condividere tutto
a parte le istituzioni»: dare vita a una cooperazione
stabile e fruttuosa che si basi su valori e obiettivi
politici comuni. I Paesi che sapranno porsi all’interno
di quest’area e che si mostreranno aperti al
rispetto dei principi e degli standard che costituiscono
la vera essenza dell’Unione parteciperanno al
compimento di un obiettivo storico quale la creazione
di un continente europeo unificato, sicuro e aperto.
Se questo avverrà, sarà l’intera
comunità internazionale a ottenerne in cambio
migliori prospettive di pace, stabilità e cooperazione
tra i popoli.
Penelope contiene, ed è questa la fondamentale
differenza rispetto alle posizioni espresse formalmente
dalla Commissione nella Comunicazione del 5 dicembre
2002, il meccanismo della «rottura costituzionale»
e dunque del diritto di recesso da parte di uno Stato
membro. Questa proposta ha incontrato molte resistenze,
anche all’interno della Commissione. Per quale
motivo? Non sarebbe meglio permettere a ciascuno Stato
di decidere se vuole partecipare alla «nuova»
Unione oppure no, senza bloccare gli altri?
Proporre la possibilità che la rifondazione
dell’Unione possa realizzarsi senza la partecipazione
di tutti gli Stati non è stata certo una scelta
facile. Il processo d’integrazione europea è
stato sempre caratterizzato dalla capacità
di avanzare – talora anche lentamente –
tutti insieme, anzi aumentando progressivamente il
numero dei «soci del club». Sin dall’inizio
del processo, negli anni Cinquanta, la questione del
recesso non era stata neppure evocata dato che era
indubbia la volontà di tutti di rendere irreversibile
un progetto di pace e prosperità per un continente
dilaniato da due conflitti mondiali in meno di venticinque
anni.
Tuttavia, oggi il contesto politico e istituzionale
è cambiato e dobbiamo necessariamente prenderne
atto al fine di elaborare soluzioni nuove. In particolare,
abbiamo ritenuto di dover dare ascolto alle molte
voci che, dentro e fuori la Convenzione, si sono levate
per invocare delle soluzioni tese a impedire il fallimento
di tutta l’operazione nel caso in cui si manifesti
una ridottissima opposizione, di uno o due Stati.
Il problema è molto delicato: occorre rispettare
le scelte politiche di ogni singolo Paese, evitando
al contempo che uno solo possa prendere tutti gli
altri in «ostaggio» e impedire loro di
progredire; è essenziale, in particolare, garantire
che i diritti acquisiti degli Stati membri siano preservati.
Il veto, infatti, è una vera e propria negazione
totale.
È in questa prospettiva che è nata e
va interpretata la soluzione proposta dal progetto
Penelope: ogni Stato può scegliere di aderire
alla Costituzione, entrando così nella nuova
Unione, o di non aderire. In quest’ultimo caso,
lo Stato in questione può mantenere tutti i
diritti già acquisiti, senza peraltro bloccare
l’avanzata di tutti gli altri. Non si può
dunque parlare di un vero e proprio diritto di recesso,
ma piuttosto di una possibilità offerta allo
Stato esclusivamente nel caso in cui non voglia o
non possa seguire gli altri nel processo d’integrazione,
pur restando strettamente associato all’Unione.
Si tratta, a mio avviso, di una proposta equilibrata
e rispettosa degli interessi tanto degli Stati che
ambiscono a rafforzare il processo d’integrazione,
che di quelli più restii ad avanzare lungo
questa strada. Ed è anche una soluzione democratica,
in un sistema che da tempo ha assunto tratti specifici
e nuovi, ben diversi da quelli caratterizzanti il
diritto internazionale.
Ma ammetto che essa costituisce una piccola rivoluzione
rispetto alla situazione esistente, che può
essere considerata come dissonante rispetto alla logica
dell’allargamento che ha ispirato l’azione
dell’Unione, in particolare negli ultimi anni.
Perciò, in una certa misura, posso comprendere
le difficoltà che alcuni, anche all’interno
della Commissione, provano ad accettare una simile
proposta.
Perché, in generale, il voto a maggioranza
fa così paura?
La risposta è estremamente banale:
perché ogni Stato membro teme di poter essere
messo in minoranza in determinate situazioni ed essere
poi obbligato a rispettare delle decisioni che gli
risultano sgradite. In altri termini, è la
paura di perdere la propria sovranità che impedisce
a taluni Stati di accettare il principio dell’abbandono
delle decisioni all’unanimità.
Il punto è che, in certi settori, la sovranità
nazionale è purtroppo divenuta del tutto fittizia.
I fenomeni della globalizzazione hanno reso le voci
dei singoli Stati flebili, le loro azioni inefficaci,
come certi eventi internazionali continuano drammaticamente
a ricordarci, giorno dopo giorno. In questi casi,
solo l’esercizio congiunto delle sovranità
nazionali in seno all’Unione europea consente
agli Stati di incidere sui processi politici ed economici
fondamentali per garantire la pace, il benessere e
lo sviluppo della società europea e dei suoi
cittadini. È questa l’essenza del principio
della sussidiarietà, l’Unione interviene
solo se e quando la sua azione risulta più
efficace di quella dei singoli Stati.
Questo esercizio congiunto delle sovranità
comporta logicamente, come corollario, l’accettazione
del principio che l’interesse generale in qualche
caso possa non coincidere con l’interesse particolare
di uno Stato, ma debba comunque prevalere su quest’ultimo.
In questa prospettiva, il mantenimento del voto all’unanimità
appare come il riflesso di un opportunismo miope,
che rischia di pregiudicare gravemente la capacità
d’agire in modo efficace dell’Unione,
soprattutto quando essa conterà dieci nuovi
Stati membri.
È per questo che, non solo il progetto Penelope,
ma anche la Comunicazione della Commissione del 5
dicembre 2002 propongono risolutamente la soppressione
dell’unanimità e la generalizzazione
del voto a maggioranza qualificata dei membri del
Consiglio.
Molti commentatori hanno sostenuto che intorno alle
vicende della guerra in Iraq e sul valore della pace
sia rinato, dopo molto anni, un popolo europeo, o
almeno un forte sentimento di fratellanza continentale.
Le manifestazioni e le piazze confermano che qualche
cosa di massa si è risvegliato. Lei condivide
l’analisi o pensa che sia troppo presto per
cantare vittoria?
Indubbiamente, la tragica vicenda della crisi
irachena ha avuto almeno il merito di costringerci
a un dibattito senza falsi pudori sull’essenza
stessa della nostra identità di europei e del
nostro modo di stare insieme.
L’opinione pubblica europea, che passo dopo
passo si sta costruendo e rivelando, ci dice con sempre
maggior chiarezza quale sia la sua risposta, almeno
sui temi della pace e della sicurezza nel nostro continente.
I sondaggi dell’Eurobarometro, condotti con
regolarità dalla Commissione, mostrano ad esempio
come i cittadini chiedano in particolare all’Unione
di assicurare la loro sicurezza, tanto all’interno
del territorio europeo quanto al suo esterno. Sulla
guerra e sulla pace, poi, e di questo abbiamo avuto
una dimostrazione senza precedenti nelle strade e
nelle piazze delle nostre città, il filo comune
delle opinioni non conosce frontiere all’interno
dell’Europa. Questo è il segno di un
avvicinamento reale dei popoli, che precorre e anticipa
le riforme delle istituzioni e degli ordinamenti ed
è espressione di quello che i cittadini si
aspettano dall’Unione di oggi e del futuro.
Non si può evitare la domanda sul perché
l’Europa sia arrivata a decisioni di tale importanza
così divisa. Che cosa non ha funzionato? È
ancora una volta, come lei stesso ripete, la fragilità
del sistema europeo di difesa e di politica estera
o sono intervenuti altri fattori? Si sono forse risvegliati
i riflessi condizionati di alcune medie potenze o
c’è in prospettiva una strategia, da
parte di alcuni, per superare la formula dell’atlantismo?
La crisi irachena ha evidenziato, impossibile
negarlo, delle forti divergenze tra gli Stati membri
sulla visione globale di questa tragica vicenda e
sugli strumenti da adottare per arrivare alla soluzione
migliore. Ora, pur trattandosi di differenze importanti,
che in un certo senso segnano il confine stesso tra
l’idea di «guerra» e di «pace»
e tra modi diversi di intendere le relazioni internazionali,
da parte almeno di alcuni Stati membri, esse non coinvolgono
tuttavia l’obiettivo ultimo delle nostre politiche
né la solidità del legame atlantico.
Al contrario, dobbiamo guardarci dalla tentazione
di costruire un’Europa in contrapposizione agli
Stati Uniti perché ciò non rende giustizia
alla nostra storia comune e alla portata dei nostri
legami. Su questo e su altri punti c’è,
e c’è sempre stato, un accordo forte
all’interno dell’Unione, e in particolare
sulla centralità del ruolo delle Nazioni Unite
e del Consiglio di Sicurezza per la gestione dell’ordine
internazionale, la lotta al terrorismo e alla proliferazione
delle armi di distruzione di massa, l’impegno
per una gestione multilaterale della politica mondiale.
L’Unione vive un momento delicato della propria
storia, in cui non svolge il ruolo che invece potrebbe
e dovrebbe svolgere. A questo proposito i nostri sforzi
devono ora concentrarsi sulla costruzione di una difesa
e di una sicurezza comuni adeguate a un’Europa
forte, che agisca come soggetto politico unito sulla
scena mondiale. Perché ciò accada, abbiamo
bisogno di una seria riforma istituzionale e di nuove
e più efficienti procedure di decisione, ma
esse rimarranno solo una risposta parziale ai nostri
bisogni se gli europei non dimostreranno una volontà
politica forte di contribuire all’organizzazione
dei nuovi assetti mondali.
Non si può avere una grande ambizione politica
se non si ha una visione. Così come dopo il
fallimento del progetto di dare vita a un’Europa
della difesa fu possibile trovare lo slancio che portò
ai Trattati di Roma, oggi dobbiamo ripensare il futuro
dell’Unione e avere il coraggio di progredire
sulla strada dell’unificazione dell’Europa,
rendendo l’UE un soggetto politico credibile
e attivo, portatore anche all’esterno di quei
valori di pace, multilateralismo, solidarietà
e sicurezza su cui si fonda.
In varie aree del mondo prosegue, pur tra
molte incertezze, il tentativo di organizzare e sostenere
aggregazioni economiche e politiche regionali o continentali.
Quella europea è tra le più antiche
e certamente, pur con tutti i suoi limiti, la più
efficace. Alcuni sostengono a questo punto che non
vale la pena di metterla a repentaglio in nome di
un’infatuazione politica e quindi sarebbe meglio
rafforzarla e migliorarla così com’è
invece di procedere spediti verso un salto di qualità.
Altri forse pensano addirittura di far regredire l’Europa
solo a un’area di libero scambio economico.
Come risponde a queste obiezioni e a queste, spesso
malcelate, cattive intenzioni?
L’esperienza di integrazione europea
è senza dubbio un successo e, come praticamente
unico esempio di gestione democratica della globalizzazione
su scala regionale, è diventato anche un modello
per altre aree del mondo che si stanno avviando sullo
stesso cammino di condivisione e di cooperazione.
Naturalmente, si tratta di un modello perfettibile
e in continua evoluzione, ma che ha comunque già
raggiunto obiettivi importanti e costituisce oggi
un nucleo di prosperità, di stabilità,
di valori comuni che non è possibile ignorare
all’interno della comunità internazionale.
Questa Europa è oggi confrontata a un processo
di crescita e di cambiamento che, per sua natura,
non le è possibile evitare. Non si tratta di
un sussulto legato all’emozione del momento,
ma di qualcosa di molto più profondo, che sarebbe
imperdonabile ignorare e sul quale occorre piuttosto
ritrovare un comune sentire.
I cittadini ci chiedono di completare l’unificazione
dell’Europea dandole le istituzioni, gli strumenti
e i meccanismi di decisione capaci di trasformarla
in un’autentica Unione politica. Solo così
potrà esprimere una politica unitaria ed efficace
in campo non solo economico, ma delle relazioni internazionali
e della difesa.
Non c’è un’opzione tra un’Europa
più piccola e più efficace e una invece
più ampia ma più debole. Al contrario,
il processo di allargamento comporterà vantaggi
economici, sociali e politici rilevanti. Questo sarà
possibile se verranno intraprese parallelamente riforme
istituzionali precise e importanti che permettano
all’Europa di decidere e agire in modo ancor
più efficiente e democratico. Un allargamento
senza una forte prospettiva politica comune può
andare bene solo a chi vuole ridurre la nostra Unione
a una zona doganale. Le idee che raccolgo sono ben
diverse e spingono per la crescita di una forte identità
politica europea.
Uniti si vince tutti: la strada ci è già
stata indicata, dobbiamo solo avere il coraggio di
percorrerla nel migliore dei modi, perché le
nostre potenzialità comuni si sviluppino appieno.
Presidente, tutti gli analisti riflettono
sulla crisi della relazioni USA-Europa. Secondo Lei,
si tratta di una crisi di rapporti fra gli USA e l’Europa
propriamente detta o tra gli USA e alcuni Stati europei?
Gli europei potrebbero convincersi che gli USA non
vogliono un’Europa coesa. Perché invece
sarebbe un vantaggio per entrambi?
Quando USA ed Europa procedono insieme, il
mondo intero ne trae giovamento e questo è
un fatto incontestabile. A volte esistono disaccordi
tra le due sponde dell’Atlantico, ma al fondo
di tutto europei e americani condividono dei profondi
valori comuni. L’ostilità verso l’Europa
è figlia della capacità di dividere
gli europei. Uniti invece si vince tutti.
Credo che in America tutti dovrebbero riflettere e
considerare ciò che sta accadendo oggi in Europa.
La moneta unica, l’allargamento a dieci nuovi
Paesi membri, il dibattito all’interno della
Convenzione per riformare in modo aperto e democratico
le nostre istituzioni, sono i tasselli di un continente
che si sta unificando democraticamente e pacificamente.
Questo modello di sviluppo regionale ha un valore
che trascende i confini dell’Unione e, come
tale, deve essere riconosciuto anche dagli Stati Uniti
per i valori che afferma e per i risultati concreti,
dal punto di vista economico, sociale e politico.
In questi anni è diventato di moda
contrapporre il modello statunitense al modello europeo
per evidenziare i limiti di quest’ultimo. Ma
è ormai noto – lo ha confermato recentemente
anche Tommaso Padoa Schioppa – che negli ultimi
trent’anni il modello europeo (in verità
oggi fa più fatica) ha garantito una crescita
economica più sostenuta di quella americana.
Riccardo Faini, in uno studio del 2002, ha fortemente
ridimensionato la maggior crescita del PIL e della
produttività statunitense rispetto a quella
europea. Se questo è vero, non le pare che
tutto quello che l’Europa è come modello
sociale, anche solo a parità di crescita e
di benessere, rappresenti un valore aggiunto straordinario?
Questo è certamente vero. Il modello
europeo ha in sé tutte le potenzialità
per affrontare al meglio, in linea con i diritti e
i valori di solidarietà che protegge, le sfide
della globalizzazione. Oggi, questo modello attraversa
una fase cruciale e deve rispondere a domande che
non possono più essere ignorate. Occorre dare
sostanza al concetto di cittadinanza europea e articolare
maggiormente il modello europeo di sviluppo, il che
solleva ovviamente la questione dei rapporti tra Stato
e mercato e il ruolo dell’Europa in tutto questo.
La strategia di Lisbona mira a rendere l’economia
europea «più competitiva e dinamica nel
mondo, capace di una crescita economica sostenibile
con opportunità di lavoro migliori e più
numerose e una maggiore coesione sociale».
Questi tre fattori, prosperità economica, coesione
sociale e protezione dell’ambiente, e soprattutto
le sinergie create dalla loro combinazione, danno
al nostro modello di sviluppo la sua forza trainante
e la sua originalità. Non illudiamoci, però,
che il nostro modello economico e sociale possa durare
senza cambiamenti. Il welfare è stata la nostra
migliore conquista del secolo scorso. Ma non basta
l’orgoglio per vincere la sfida della modernizzazione.
Presidente, si afferma spesso che il problema
della sovranità è prima di tutto il
problema della capacità di difendere e tutelare
gli interessi fondamentali. Che cosa hanno da guadagnare
i cittadini europei dalla perdita di una parte significativa
della rispettiva sovranità nazionale a vantaggio
di quella europea? In che modo un’Europa alla
Penelope restituisce agli europei la sovranità
che toglie agli Stati? Lei dice spesso che l’Europa
può vincere. Ma quali sono in realtà
le sfide che deve vincere?
È ormai presente in Europa, tra i
governi nazionali così come tra i cittadini
e all’interno delle istituzioni comunitarie,
la consapevolezza della necessità di riformare
profondamente l’Unione e dotarla di una nuova
costituzione.
Il sistema comunitario, che ha funzionato egregiamente
per cinquant’anni, ha oggi bisogno di essere
aggiornato e sono pronto a ribadire con forza quest’impegno:
non è possibile andare avanti se ognuno resta
fermo sulle proprie certezze.
Il metodo inaugurato dalla Convenzione ha innescato
esattamente il processo democratico di cui l’Unione,
e i suoi cittadini, hanno bisogno. Prima i negoziati
si tenevano a porte chiuse. Ora i governi vengono
alla Convenzione e si esprimono alla luce del sole.
Essa offre al mondo intero una riflessione pubblica
su tutti gli aspetti delle nostre istituzioni, il
che conferma in sostanza la volontà di consolidare
un’Unione di popoli e di Stati che sia la prima
vera democrazia sovranazionale.
La coerenza ci impone però di garantire che
tutte le decisioni rispecchino la doppia legittimità
dei popoli e degli Stati. Per questo, abbiamo presentato,
tra le altre, quattro proposte specificamente volte
a una maggiore democrazia: un presidente della Commissione
eletto dal Parlamento, una Commissione responsabile
sia di fronte al Parlamento che al Consiglio europeo,
una procedura legislativa che coinvolga il Parlamento
e il Consiglio generalizzando il metodo della codecisione,
e infine una procedura di bilancio riformata. A ciò
si aggiungono altre misure, quali ad esempio una riforma
radicale delle competenze d’esecuzione della
legislazione europea. Occorre affidare tali competenze
esclusivamente alla Commissione che, ricordo, sarà
responsabile dinanzi a entrambi i rami legislativi
dell’Unione.
Il nostro contributo alla Convenzione si concentra
dunque su istituzioni più funzionali e su un
processo decisionale più semplice, veloce ed
efficiente.
Soprattutto, dobbiamo sviluppare la dimensione democratica
e morale dell’Unione: i cittadini europei hanno
bisogno di comprendere appieno e partecipare agli
sviluppi del progetto europeo. L’architettura
costituzionale della nuova Unione, specialmente all’indomani
dell’allargamento, dovrà certamente fondarsi
sulla positiva esperienza dei primi cinquant’anni
di integrazione europea, ma dovrà altresì
essere in grado di affrontare le nuove sfide del terzo
millennio, quali la riforma economica e lo sviluppo
sostenibile, la lotta contro il terrorismo e la promozione
di una governance globale, che nessun Paese europeo
può ormai affrontare da solo.
In più occasioni Lei ha preso posizione
contro il cosiddetto «pensiero unico»,
cioè contro la pretesa di avere e soprattutto
di imporre certezze basate sull’assoluto del
mercato e della concorrenza, senza saper cogliere
i contributi del pensiero critico e di tutte le riflessioni
che arricchiscono lo scenario di riferimento per le
società industriali. Ma perché il pensiero
unico perda la sua battaglia per il predominio nelle
decisioni occorrerebbe che il pensiero critico sapesse
giungere al «potere». Servono leader più
intelligenti e più generosi? O nuovi canali
istituzionali di confronto? In una certa misura questo
è certamente il tema dell’aggiornamento
della stessa formula politica parlamentare che però,
purtroppo, troppi governanti screditano preferendo
la democrazia mediatica e dei sondaggi.
Ho constatato spesso in questi anni che la politica,
nella sua pratica concreta, è così irta
di imprevisti e di rischi, così lastricata
di buone intenzioni perdute e di decisioni sagge poi
risoltesi in misure pratiche negative, a volte inique,
da farmi concludere che sia necessario un ritorno
al dialogo tra etica e politica e a un’azione
istituzionale orientata da principi e valori definiti.
L’era dei dogmi e del pensiero unico è
alle nostre spalle. Gli anni Novanta sono finiti,
e con essi sono finite quelle certezze che li hanno
caratterizzati, tra cui certamente l’idea di
una supposta superiorità degli affari e del
mercato sulla politica.
La gente ha capito che non viviamo «nel migliore
dei mondi possibili» e che non ci si può
illudere su una crescita «senza fine».
Del resto, non è il mercato in sé, ma
un approccio fondamentalista al mercato che ha portato
a eliminare il legame tra ricchezza reale e risorse
finanziarie, a farlo coincidere unicamente con la
finanza, a oscurarne completamente la funzione sociale.
C’è bisogno di sempre più «correttezza»
nei comportamenti delle autorità pubbliche
e delle imprese e il contesto europeo è adatto
e maturo per questo dibattito.
Dobbiamo riflettere sul concetto di mercato, sul Welfare,
sullo sviluppo sostenibile. Nelle origini dell’Europa,
del resto, il mercato non era un bene assoluto, ma
un luogo per favorire le libertà, le interazioni
sociali, la conoscenza e il rispetto degli altri.
Oggi, la stessa idea di far coincidere strettamente
capitalismo e massimizzazione del profitto è
ormai inaccettabile. È sempre più evidente
che oggi il capitalismo ha bisogno di codici morali
che assicurino coordinamento e cooperazione nei rapporti
di lavoro, nelle relazioni economiche, nelle transazioni
commerciali.
Le istituzioni, anche le istituzioni europee, devono
collocarsi in tale ottica, perché tutto questo
si ottiene non attraverso generiche invocazioni moralistiche,
ma attraverso un nuovo tipo di regolamentazione e
un dibattito aperto e democratico. La riflessione
pubblica, la società civile, una partecipazione
attiva dei cittadini alla definizione delle priorità
politiche europee e nazionali devono orientare, più
di quanto sia accaduto in passato, l’azione
di governo, senza contrapporsi a essa. È da
questo che dipende la capacità di costruire
un nuovo progetto politico per l’Europa e la
capacità dell’Europa di contribuire a
una più giusta governance mondiale.
La Carta di Nizza e quindi Penelope, che la
riprende, dedica ben 17 articoli al capitolo della
solidarietà. Perché è così
importante per noi europei?
Porre il principio della solidarietà tra le
nostre priorità significa riconoscere l’importanza
di lottare, oggi più di ieri, contro l’esclusione
sociale e offrire un’alternativa realistica
al «pensiero unico» dominato dal mercato.
Nella società globalizzata in cui viviamo,
il tentativo di arrivare a una gestione e a un controllo
democratico dei processi economici è di vitale
importanza, in nome dei diritti di tutti i lavoratori.
C’è la necessità di ripensare
i rapporti all’interno delle comunità
e di ricostituire un tessuto sociale sano, attraverso
ad esempio interventi specifici nelle periferie delle
società europee.
Solidarietà significa anche un sistema di sicurezza
sociale efficace e nuovi diritti ai lavoratori. La
Commissione promuove in tutte le sue politiche questo
punto di vista. Nostro grande cavallo di battaglia
è oggi il diritto alla formazione permanente
dei lavoratori: non più una semplice opzione,
ma l’unica via per permettere al maggior numero
possibile di persone di partecipare pienamente e attivamente
alla nuova società della conoscenza. Promuovere
il cambiamento nell’organizzazione della ricerca
e una sua maggiore apertura sono gli obiettivi dello
«spazio europeo della ricerca». E sulla
mobilità degli studenti, dei docenti e dei
ricercatori si può fare di più. Queste
sono le vie concrete per evitare nuove forme di frattura
ed esclusione sociale.
C’è chi afferma che proprio l’eccessiva
indulgenza verso la solidarietà e l’uguaglianza
rendono i nostri Paesi non competitivi e un poco attardati
su formule insostenibili di tutela e di sostegno generalizzato.
Vorrebbero che altrettanto peso e importanza venisse
dato al mercato, alla concorrenza e all’impresa.
È una vecchia questione economica, ma perché
secondo lei riemerge oggi con forza? È solo
colpa di un welfare che in crisi o di un ritorno di
liberismo e di una certa insofferenza verso tutto
ciò che «sa di pubblico»?
Il modo in cui lo Stato oggi assolve ai suoi compiti
sta indubbiamente subendo grandi mutamenti. Mentre
in passato era lo Stato a garantire servizi di interesse
generale, lasciando spesso spazio a monopoli e concentrazioni,
oggi è molto di più ciò che viene
delegato a imprese pubbliche o private. Lo Stato mantiene
essenzialmente il compito di porre le linee politiche
generali e di regolare e supervisionare l’erogazione
di servizi di interesse generale da parte di altri
enti a ciò preposti. Il modo in cui le istituzioni
assolvono ai loro doveri nei confronti dei cittadini
è cambiato. Tuttavia, il ruolo dell’autorità
pubblica resta di enorme importanza ed è proprio
nelle sue funzioni di controllo che lo Stato continua
a esercitare il potere centrale che gli è proprio.
Ci siamo impegnati perché la gestione del servizio
pubblico guadagnasse in trasparenza ed efficienza,
anche dal punto di vista finanziario, ma questo che
non mette in discussione le priorità del nostro
modello sociale. Al contrario, sono fiducioso nelle
capacità del sistema di welfare europeo di
rinnovarsi per affrontare al meglio i cambiamenti
che sicuramente ancora ci aspettano in futuro. È
con questo spirito e tenendo ferme queste priorità
che gli Stati devono operare per ritrovare competitività
a livello economico. Crescita e solidarietà
non sono due nozioni incompatibili, ma piuttosto due
aspetti complementari di un sistema economico sano.
La posizione di presidente della Commissione
europea è unica e difficile. Si tratta di una
esperienza di leadership doppiamente trasversale,
tra Paesi e tra forze politiche diversi: come ci si
orienta e quali sono le difficoltà? Quale tipo
di guida deve e dovrà esercitare il presidente
per mantenere la collegialità politica della
Commissione quando essa riguarderà 25 o 30
Paesi?
La Commissione è un organo politico, in cui
le decisioni sono prese collegialmente. Ogni singola
decisione è ovviamente preparata da poderosi
staff tecnici, vale a dire dai funzionari dei diversi
dipartimenti in cui la Commissione è organizzata.
Questo consente a coloro che devono assumere l’onere
della decisione politica, di disporre di una solida
base di lavoro, unica nel suo genere. È vero
che molte volte ciò prevede che sul tavolo
della commissione arrivino più opzioni, tra
cui si deve scegliere. Tuttavia, questo non mi sembra
un elemento negativo; al contrario, questo permette
al politico di decidere sulla base di una seria e
approfondita valutazione della realtà e delle
conseguenze della decisione.
Proprio la collegialità può essere un
punto di forza della Commissione e non un elemento
di debolezza. È un punto di forza ogni volta
che essa implica che ogni decisione possa beneficiare
dell’apporto di diversi commissari, apporto
in termini sia di conoscenze tecniche, che di sensibilità
politiche. Dall’esterno si può forse
avere l’impressione che quando 15 o più
persone sono implicate in un processo decisionale,
questo comporti molte discussioni e forse qualche
ritardo. Ma dall’interno è più
facile vedere come dal contributo di tutti la qualità
delle decisioni della Commissione esca rafforzata;
in più, la Commissione lavora sulla base di
una programmazione a medio termine, e non certo sulla
base di iniziative estemporanee.
Che differenza c’è rispetto alla
direzione di un governo nazionale, esperienza che
lei fece in Italia con il governo dell’Ulivo
tra il 1996 e il 1998? Che cosa ha imparato dal confronto?
C’è certamente una notevole differenza
tra la guida di un governo nazionale e quella della
Commissione europea. La Commissione europea non è,
non ancora, un governo europeo comparabile a un’istituzione
nazionale. Ma come presidente della Commissione, pur
esercitando un minor potere immediato in rapporto
a un’esperienza di governo nazionale, si ha
tuttavia la sensazione di contribuire alla realizzazione
di un progetto storico. Lavorare per l’Europa
comporta responsabilità e capacità di
guardare oltre i confini, con la consapevolezza di
partecipare alla costruzione un progetto nuovo all’interno
di una dimensione, sia in termini di impegni che di
visione, veramente mondiale. Certo, nel futuro bisognerà
oliare ancora di più i meccanismi interni,
favorire sempre di più l’interazione
non solo al momento apicale di una singola decisione,
ma già al momento della preparazione.
Vorrei però sottolineare un altro aspetto:
nell’esercizio quotidiano dell’attività
di governo, quasi tutte le decisioni che si prendono
a livello nazionale sono una ripetizione di altre
decisioni; in sostanza, tranne alcuni grandi progetti,
a livello nazionale si amministra molto, ma non si
innova altrettanto. Al contrario, a livello europeo,
quasi tutte le decisioni riguardano nuovi cantieri:
pensate alla recente Comunicazione della Commissione
sulle relazioni con gli Stati vicini all’Europa
dopo l’ampliamento, o alla proposta di direttiva
per stabilire delle sanzioni penali contro i responsabili
di disastri ecologici quali quelli provocati dall’Erika
o dal Prestige sulle coste francesi e spagnoli. In
questi e in centinaia di altri casi, la Commissione
non si muove su un terreno già battuto, ma
deve esplorare nuove piste, essere innovativa, proporre
soluzioni che si applichino ai cittadini di 15 (e
presto 25) Stati.
Ci può spiegare allora che cos’è
l’engagement européen che il progetto
Penelope introduce come requisito per i commissari
della futura Commissione?
L’esperienza m’ha insegnato che l’esercizio
del mandato di Commissario europeo costituisce una
missione particolare. Occorre essere capaci di abbandonare
i preconcetti che derivano dalla propria origine nazionale
e di comprendere le esigenze delle altre realtà
di cui si compone l’Unione. Occorre avere uno
spirito indipendente, al fine di definire in ogni
circostanza l’interesse generale, che non è
la somma, ma piuttosto la sintesi degli interessi
nazionali. In altri termini, occorre avere un riflesso
politico europeo che deve animare costantemente la
propria azione.
Nella storia dell’Unione europea, i migliori
Commissari sono stati proprio quelli che hanno dimostrato
di possedere questo riflesso politico europeo. Trovo
assai opportuno che il progetto Penelope lo includa
tra le condizioni necessarie di ammissibilità
alla funzione di Commissario, traducendolo nel requisito
dell’impegno europeo.
Il cittadino europeo, anche quello preparato, difficilmente
riesce comunque a capire su quali dati e sulla base
di quale processo istruttorio la Commissione decide
e in che modo essa arriva al confronto con il Parlamento
e con i ministri dei vari Stati. Non sarebbe opportuno,
almeno in alcuni casi, rendere più visibile
proprio la distinzione fra opzioni tecniche possibili
– fase istruttoria – e scelte politiche?
In occasione del mio primo discorso dinanzi al Parlamento
europeo, dopo l’investitura formale come presidente
della Commissione, indicai come una delle quattro
priorità del mio mandato il miglioramento della
governance nell’Unione. In effetti, prima ancora
che questo divenisse un tema di moda nel dibattito
politico e sulla stampa, mi ero reso conto che occorreva
riavvicinare i cittadini europei alle istituzioni,
attraverso una loro maggiore implicazione nei processi
decisionali che dovevano diventare più chiari,
aperti ed efficaci.
Credo di poter affermare che, da allora, molto è
stato fatto: il Libro bianco sulla governance europea,
elaborato nel quadro di una feconda cooperazione con
la società civile, ha tracciato le linee direttrici
di questo nuovo approccio; le iniziative più
specifiche in tema di consultazione del pubblico,
di valutazione d’impatto delle proposte legislative,
di decentramento della fase esecutiva, di ampia diffusione
delle informazioni hanno creato degli strumenti che
permetteranno di applicare concretamente i principi
della trasparenza, della partecipazione, della responsabilità,
dell’efficacia e della coerenza dell’azione
dell’Unione.
Il processo di riforma costituzionale – avviato
con la dichiarazione di Laeken, proseguito con la
Convenzione e che si concluderà con l’adozione
della futura Costituzione – consacrerà
in maniera definitiva e, spero, ottimale, questo processo
di riavvicinamento tra i cittadini e le istituzioni.
Mi auguro che, alla fine del mio mandato, nel 2004,
i cittadini europei conosceranno meglio l’Unione,
i suoi obiettivi, la sua indubbia utilità e
saranno maggiormente coinvolti nel funzionamento delle
sue istituzioni. Allora, ne sono certo, capiranno
di potersi fidare pienamente di questa Unione.
Presidente, il semestre di presidenza italiana
dell’Unione è alle porte. Cade in una
congiuntura molto delicata, ma di grande importanza.
Il governo Berlusconi e la sua maggioranza sembrano
aver deciso di voler sfruttare l’occasione anche
per far valere di più l’interesse nazionale.
Qual è secondo Lei la via maestra da tenere?
La via è molto chiara: è inutile complicarla
e renderla tortuosa. Durante la mia esperienza di
presidente della Commissione europea, ho sperimentato
ogni giorno come l’interesse nazionale italiano
risieda in un’Europa unita e capace di affermare
la propria voce. Contrapporre Italia e Unione europea
non giova né all’una né all’altra.
Tentare operazioni improvvisate sarebbe inutile e
grave. Gli italiani sanno riconoscere immediatamente
la sostanza delle cose e hanno sempre dato il meglio
di sé quando hanno capito che si dovevano impegnare
per qualche cosa che valeva davvero e che non era
improvvisato. Non ci penserei due volte: un’Europa
più forte vuol dire un’Italia più
forte.
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