235 - 06.09.03


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La tela di Penelope

Romano Prodi con Giuseppe Tognon

L'intervista che segue apre "La tela di Prodi. Una Costituzione per un’Europa più democratica", a cura di Giuseppe Tognon, appena pubblicato da Baldini&Castoldi. Il volume contiene saggi di Tognon, Vladimiro Giacché, Stefano Ceccanti, Paolo Russo Caia e Francesco Clement

Presidente, il 4 dicembre 2002 lei ha presentato alla Commissione il progetto per una Costituzione europea che tra gli addetti ai lavori è circolato con il nome di Penelope, un nome che evoca fedeltà, tenacia, accortezza. Ne "La tela di Prodi. Una Costituzione per un'Europa più democratica" (Baldini&Castoldi), noi pubblichiamo il testo in italiano e cerchiamo di spiegare ai lettori perché il progetto è importante e soprattutto qual è il suo significato politico. Abbiamo saputo dai giornali e dalle voci di corridoio di Bruxelles che quella riunione del 4 dicembre è stata tempestosa. Subito dopo si è aperto anche sulla grande stampa internazionale un potente fuoco di sbarramento. Ripensando a quei giorni che cosa ha da dire oggi? Si aspettava un’accoglienza diversa?

È vero, al momento della sua pubblicazione il progetto Penelope non ha ricevuto una calorosa accoglienza. Ho però l’impressione che la maggior parte delle critiche fossero del tutto strumentali, nella logica del «tiro al bersaglio della Commissione» che è propria di certi ambienti: queste me le aspettavo. Le contestazioni non prevenute sono state invece, a mio parere, frutto di malintesi nel frattempo chiariti. Per esempio, promuovendo il progetto Penelope non ho inteso affatto porre la Commissione in competizione con la Convenzione – di cui sono stato fin dall’inizio uno dei più strenui sostenitori –, ma piuttosto fornire un solido contributo per la riflessione ulteriore dei suoi membri, al pari di altri progetti di Costituzione che sono stati resi pubblici nel corso del 2002, per esempio il testo del Partito popolare europeo presentato da Elmar Brok o il contributo redatto dall’Università di Oxford e presentato da Peter Hain a nome del governo britannico.
Inoltre, è inesatto affermare che il progetto Penelope è stato ripudiato dalla Commissione, in quanto non ho mai pensato di chiedere agli altri Commissari di adottare formalmente questo testo, avendo sempre considerato che le posizioni ufficiali della Commissione dovessero avere un carattere squisitamente politico e istituzionale, alla stregua delle due comunicazioni presentate nel maggio e nel dicembre 2002. Mi pare comunque opportuno rilevare che le critiche si sono concentrate esclusivamente sul metodo di preparazione. Passato un breve periodo di decantazione, molti lettori hanno finalmente scoperto il vero contenuto del progetto Penelope; da allora mi pare di non aver più udito molte critiche, ma, al contrario, elogi e attestati di apprezzamento. Sono convinto che la qualità e la coerenza del risultato finale si debbano, almeno in parte, alla riservatezza che ha caratterizzato la preparazione del testo, riservatezza che era stata così contestata al momento della pubblicazione del progetto.
Ricordo che in quei giorni dissi ai miei collaboratori che, dopo un parto difficile, presto molti avrebbero reclamato la paternità, o almeno la parentela, di Penelope. I fatti cominciano a darmi ragione, visto che alcuni autorevoli esponenti della Convenzione sempre più spesso fanno riferimento a soluzioni proposte per la prima volta nel nostro progetto.

Nel testo di Penelope avete ripreso il preambolo del vecchio trattato CECA che si apre con un’affermazione che non potrebbe essere più attuale: «Considerando che la pace mondiale può essere difesa soltanto attraverso un impegno creativo commisurato ai pericoli che la minacciano…» Che cosa può significare oggi essere creativi per la pace futura?

Dopo cinquant’anni, il trattato CECA è giunto al termine della sua durata legale. Tuttavia, le idee fondatrici solennemente espresse nel suo preambolo hanno ancora oggi grande attualità e continueranno ad averla in futuro. L’ambizione dei padri fondatori di condividere il nostro destino per creare uno spazio di pace, di stabilità e di prosperità – l’ambizione dell’Europa del dopoguerra – è tuttora valida nel nostro continente che sarà presto unificato.
In questo momento di grave crisi internazionale, tuttavia, non possiamo guardare ai successi dell’integrazione europea come a un punto di arrivo. Al contrario, essi devono continuare a ispirare le nostre ambizioni spingendoci ad assumere un ruolo attivo nella promozione di sicurezza e stabilità per tutto il continente.
La guerra in Iraq tocca profondamente noi europei, perché la riconciliazione e la pace sono la storia e il fondamento stesso dell’Europa. L’Unione si basa sui valori comuni di democrazia, stato di diritto, rispetto per l’identità di ciascuno e i diritti delle minoranze, e sul comune desiderio di pace e stabilità. Il suo obiettivo principale è sempre stato salvaguardare la pace in Europa e lavorare per la stabilità in un mondo esposto a guerre e discordie, e questo assume oggi un’importanza più che mai evidente.
Svolgere un ruolo creativo per garantire la pace in Europa significa dunque affrontare le sfide del futuro, in primis il processo di allargamento, con una strategia precisa e nel rispetto dei nostri valori fondanti. Dobbiamo affermare con chiarezza che i confini dell’Unione allargata non sono concepiti come nuovi muri ma come aree di cooperazione per azioni congiunte nel quadro di strategie comuni. L’Unione non ha bisogno di nuove divisioni, né vuole divenire una «fortezza».
Al contrario, l’UE ha bisogno di un «anello di amici» ai suoi confini, dalla Russia fino alle rive del Mediterraneo, e deve offrir loro qualcosa che vada oltre l’attuale partenariato, pur non trattandosi di un’adesione piena. Questo è ciò che io chiamo «condividere tutto a parte le istituzioni»: dare vita a una cooperazione stabile e fruttuosa che si basi su valori e obiettivi politici comuni. I Paesi che sapranno porsi all’interno di quest’area e che si mostreranno aperti al rispetto dei principi e degli standard che costituiscono la vera essenza dell’Unione parteciperanno al compimento di un obiettivo storico quale la creazione di un continente europeo unificato, sicuro e aperto. Se questo avverrà, sarà l’intera comunità internazionale a ottenerne in cambio migliori prospettive di pace, stabilità e cooperazione tra i popoli.

Penelope contiene, ed è questa la fondamentale differenza rispetto alle posizioni espresse formalmente dalla Commissione nella Comunicazione del 5 dicembre 2002, il meccanismo della «rottura costituzionale» e dunque del diritto di recesso da parte di uno Stato membro. Questa proposta ha incontrato molte resistenze, anche all’interno della Commissione. Per quale motivo? Non sarebbe meglio permettere a ciascuno Stato di decidere se vuole partecipare alla «nuova» Unione oppure no, senza bloccare gli altri?

Proporre la possibilità che la rifondazione dell’Unione possa realizzarsi senza la partecipazione di tutti gli Stati non è stata certo una scelta facile. Il processo d’integrazione europea è stato sempre caratterizzato dalla capacità di avanzare – talora anche lentamente – tutti insieme, anzi aumentando progressivamente il numero dei «soci del club». Sin dall’inizio del processo, negli anni Cinquanta, la questione del recesso non era stata neppure evocata dato che era indubbia la volontà di tutti di rendere irreversibile un progetto di pace e prosperità per un continente dilaniato da due conflitti mondiali in meno di venticinque anni.
Tuttavia, oggi il contesto politico e istituzionale è cambiato e dobbiamo necessariamente prenderne atto al fine di elaborare soluzioni nuove. In particolare, abbiamo ritenuto di dover dare ascolto alle molte voci che, dentro e fuori la Convenzione, si sono levate per invocare delle soluzioni tese a impedire il fallimento di tutta l’operazione nel caso in cui si manifesti una ridottissima opposizione, di uno o due Stati.
Il problema è molto delicato: occorre rispettare le scelte politiche di ogni singolo Paese, evitando al contempo che uno solo possa prendere tutti gli altri in «ostaggio» e impedire loro di progredire; è essenziale, in particolare, garantire che i diritti acquisiti degli Stati membri siano preservati. Il veto, infatti, è una vera e propria negazione totale.
È in questa prospettiva che è nata e va interpretata la soluzione proposta dal progetto Penelope: ogni Stato può scegliere di aderire alla Costituzione, entrando così nella nuova Unione, o di non aderire. In quest’ultimo caso, lo Stato in questione può mantenere tutti i diritti già acquisiti, senza peraltro bloccare l’avanzata di tutti gli altri. Non si può dunque parlare di un vero e proprio diritto di recesso, ma piuttosto di una possibilità offerta allo Stato esclusivamente nel caso in cui non voglia o non possa seguire gli altri nel processo d’integrazione, pur restando strettamente associato all’Unione.
Si tratta, a mio avviso, di una proposta equilibrata e rispettosa degli interessi tanto degli Stati che ambiscono a rafforzare il processo d’integrazione, che di quelli più restii ad avanzare lungo questa strada. Ed è anche una soluzione democratica, in un sistema che da tempo ha assunto tratti specifici e nuovi, ben diversi da quelli caratterizzanti il diritto internazionale.
Ma ammetto che essa costituisce una piccola rivoluzione rispetto alla situazione esistente, che può essere considerata come dissonante rispetto alla logica dell’allargamento che ha ispirato l’azione dell’Unione, in particolare negli ultimi anni. Perciò, in una certa misura, posso comprendere le difficoltà che alcuni, anche all’interno della Commissione, provano ad accettare una simile proposta.

Perché, in generale, il voto a maggioranza fa così paura?

La risposta è estremamente banale: perché ogni Stato membro teme di poter essere messo in minoranza in determinate situazioni ed essere poi obbligato a rispettare delle decisioni che gli risultano sgradite. In altri termini, è la paura di perdere la propria sovranità che impedisce a taluni Stati di accettare il principio dell’abbandono delle decisioni all’unanimità.
Il punto è che, in certi settori, la sovranità nazionale è purtroppo divenuta del tutto fittizia. I fenomeni della globalizzazione hanno reso le voci dei singoli Stati flebili, le loro azioni inefficaci, come certi eventi internazionali continuano drammaticamente a ricordarci, giorno dopo giorno. In questi casi, solo l’esercizio congiunto delle sovranità nazionali in seno all’Unione europea consente agli Stati di incidere sui processi politici ed economici fondamentali per garantire la pace, il benessere e lo sviluppo della società europea e dei suoi cittadini. È questa l’essenza del principio della sussidiarietà, l’Unione interviene solo se e quando la sua azione risulta più efficace di quella dei singoli Stati.
Questo esercizio congiunto delle sovranità comporta logicamente, come corollario, l’accettazione del principio che l’interesse generale in qualche caso possa non coincidere con l’interesse particolare di uno Stato, ma debba comunque prevalere su quest’ultimo. In questa prospettiva, il mantenimento del voto all’unanimità appare come il riflesso di un opportunismo miope, che rischia di pregiudicare gravemente la capacità d’agire in modo efficace dell’Unione, soprattutto quando essa conterà dieci nuovi Stati membri.
È per questo che, non solo il progetto Penelope, ma anche la Comunicazione della Commissione del 5 dicembre 2002 propongono risolutamente la soppressione dell’unanimità e la generalizzazione del voto a maggioranza qualificata dei membri del Consiglio.

Molti commentatori hanno sostenuto che intorno alle vicende della guerra in Iraq e sul valore della pace sia rinato, dopo molto anni, un popolo europeo, o almeno un forte sentimento di fratellanza continentale. Le manifestazioni e le piazze confermano che qualche cosa di massa si è risvegliato. Lei condivide l’analisi o pensa che sia troppo presto per cantare vittoria?

Indubbiamente, la tragica vicenda della crisi irachena ha avuto almeno il merito di costringerci a un dibattito senza falsi pudori sull’essenza stessa della nostra identità di europei e del nostro modo di stare insieme.
L’opinione pubblica europea, che passo dopo passo si sta costruendo e rivelando, ci dice con sempre maggior chiarezza quale sia la sua risposta, almeno sui temi della pace e della sicurezza nel nostro continente. I sondaggi dell’Eurobarometro, condotti con regolarità dalla Commissione, mostrano ad esempio come i cittadini chiedano in particolare all’Unione di assicurare la loro sicurezza, tanto all’interno del territorio europeo quanto al suo esterno. Sulla guerra e sulla pace, poi, e di questo abbiamo avuto una dimostrazione senza precedenti nelle strade e nelle piazze delle nostre città, il filo comune delle opinioni non conosce frontiere all’interno dell’Europa. Questo è il segno di un avvicinamento reale dei popoli, che precorre e anticipa le riforme delle istituzioni e degli ordinamenti ed è espressione di quello che i cittadini si aspettano dall’Unione di oggi e del futuro.

Non si può evitare la domanda sul perché l’Europa sia arrivata a decisioni di tale importanza così divisa. Che cosa non ha funzionato? È ancora una volta, come lei stesso ripete, la fragilità del sistema europeo di difesa e di politica estera o sono intervenuti altri fattori? Si sono forse risvegliati i riflessi condizionati di alcune medie potenze o c’è in prospettiva una strategia, da parte di alcuni, per superare la formula dell’atlantismo?

La crisi irachena ha evidenziato, impossibile negarlo, delle forti divergenze tra gli Stati membri sulla visione globale di questa tragica vicenda e sugli strumenti da adottare per arrivare alla soluzione migliore. Ora, pur trattandosi di differenze importanti, che in un certo senso segnano il confine stesso tra l’idea di «guerra» e di «pace» e tra modi diversi di intendere le relazioni internazionali, da parte almeno di alcuni Stati membri, esse non coinvolgono tuttavia l’obiettivo ultimo delle nostre politiche né la solidità del legame atlantico.
Al contrario, dobbiamo guardarci dalla tentazione di costruire un’Europa in contrapposizione agli Stati Uniti perché ciò non rende giustizia alla nostra storia comune e alla portata dei nostri legami. Su questo e su altri punti c’è, e c’è sempre stato, un accordo forte all’interno dell’Unione, e in particolare sulla centralità del ruolo delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza per la gestione dell’ordine internazionale, la lotta al terrorismo e alla proliferazione delle armi di distruzione di massa, l’impegno per una gestione multilaterale della politica mondiale.
L’Unione vive un momento delicato della propria storia, in cui non svolge il ruolo che invece potrebbe e dovrebbe svolgere. A questo proposito i nostri sforzi devono ora concentrarsi sulla costruzione di una difesa e di una sicurezza comuni adeguate a un’Europa forte, che agisca come soggetto politico unito sulla scena mondiale. Perché ciò accada, abbiamo bisogno di una seria riforma istituzionale e di nuove e più efficienti procedure di decisione, ma esse rimarranno solo una risposta parziale ai nostri bisogni se gli europei non dimostreranno una volontà politica forte di contribuire all’organizzazione dei nuovi assetti mondali.
Non si può avere una grande ambizione politica se non si ha una visione. Così come dopo il fallimento del progetto di dare vita a un’Europa della difesa fu possibile trovare lo slancio che portò ai Trattati di Roma, oggi dobbiamo ripensare il futuro dell’Unione e avere il coraggio di progredire sulla strada dell’unificazione dell’Europa, rendendo l’UE un soggetto politico credibile e attivo, portatore anche all’esterno di quei valori di pace, multilateralismo, solidarietà e sicurezza su cui si fonda.

In varie aree del mondo prosegue, pur tra molte incertezze, il tentativo di organizzare e sostenere aggregazioni economiche e politiche regionali o continentali. Quella europea è tra le più antiche e certamente, pur con tutti i suoi limiti, la più efficace. Alcuni sostengono a questo punto che non vale la pena di metterla a repentaglio in nome di un’infatuazione politica e quindi sarebbe meglio rafforzarla e migliorarla così com’è invece di procedere spediti verso un salto di qualità. Altri forse pensano addirittura di far regredire l’Europa solo a un’area di libero scambio economico. Come risponde a queste obiezioni e a queste, spesso malcelate, cattive intenzioni?

L’esperienza di integrazione europea è senza dubbio un successo e, come praticamente unico esempio di gestione democratica della globalizzazione su scala regionale, è diventato anche un modello per altre aree del mondo che si stanno avviando sullo stesso cammino di condivisione e di cooperazione. Naturalmente, si tratta di un modello perfettibile e in continua evoluzione, ma che ha comunque già raggiunto obiettivi importanti e costituisce oggi un nucleo di prosperità, di stabilità, di valori comuni che non è possibile ignorare all’interno della comunità internazionale.
Questa Europa è oggi confrontata a un processo di crescita e di cambiamento che, per sua natura, non le è possibile evitare. Non si tratta di un sussulto legato all’emozione del momento, ma di qualcosa di molto più profondo, che sarebbe imperdonabile ignorare e sul quale occorre piuttosto ritrovare un comune sentire.
I cittadini ci chiedono di completare l’unificazione dell’Europea dandole le istituzioni, gli strumenti e i meccanismi di decisione capaci di trasformarla in un’autentica Unione politica. Solo così potrà esprimere una politica unitaria ed efficace in campo non solo economico, ma delle relazioni internazionali e della difesa.
Non c’è un’opzione tra un’Europa più piccola e più efficace e una invece più ampia ma più debole. Al contrario, il processo di allargamento comporterà vantaggi economici, sociali e politici rilevanti. Questo sarà possibile se verranno intraprese parallelamente riforme istituzionali precise e importanti che permettano all’Europa di decidere e agire in modo ancor più efficiente e democratico. Un allargamento senza una forte prospettiva politica comune può andare bene solo a chi vuole ridurre la nostra Unione a una zona doganale. Le idee che raccolgo sono ben diverse e spingono per la crescita di una forte identità politica europea.
Uniti si vince tutti: la strada ci è già stata indicata, dobbiamo solo avere il coraggio di percorrerla nel migliore dei modi, perché le nostre potenzialità comuni si sviluppino appieno.

Presidente, tutti gli analisti riflettono sulla crisi della relazioni USA-Europa. Secondo Lei, si tratta di una crisi di rapporti fra gli USA e l’Europa propriamente detta o tra gli USA e alcuni Stati europei? Gli europei potrebbero convincersi che gli USA non vogliono un’Europa coesa. Perché invece sarebbe un vantaggio per entrambi?

Quando USA ed Europa procedono insieme, il mondo intero ne trae giovamento e questo è un fatto incontestabile. A volte esistono disaccordi tra le due sponde dell’Atlantico, ma al fondo di tutto europei e americani condividono dei profondi valori comuni. L’ostilità verso l’Europa è figlia della capacità di dividere gli europei. Uniti invece si vince tutti.
Credo che in America tutti dovrebbero riflettere e considerare ciò che sta accadendo oggi in Europa. La moneta unica, l’allargamento a dieci nuovi Paesi membri, il dibattito all’interno della Convenzione per riformare in modo aperto e democratico le nostre istituzioni, sono i tasselli di un continente che si sta unificando democraticamente e pacificamente. Questo modello di sviluppo regionale ha un valore che trascende i confini dell’Unione e, come tale, deve essere riconosciuto anche dagli Stati Uniti per i valori che afferma e per i risultati concreti, dal punto di vista economico, sociale e politico.

In questi anni è diventato di moda contrapporre il modello statunitense al modello europeo per evidenziare i limiti di quest’ultimo. Ma è ormai noto – lo ha confermato recentemente anche Tommaso Padoa Schioppa – che negli ultimi trent’anni il modello europeo (in verità oggi fa più fatica) ha garantito una crescita economica più sostenuta di quella americana. Riccardo Faini, in uno studio del 2002, ha fortemente ridimensionato la maggior crescita del PIL e della produttività statunitense rispetto a quella europea. Se questo è vero, non le pare che tutto quello che l’Europa è come modello sociale, anche solo a parità di crescita e di benessere, rappresenti un valore aggiunto straordinario?

Questo è certamente vero. Il modello europeo ha in sé tutte le potenzialità per affrontare al meglio, in linea con i diritti e i valori di solidarietà che protegge, le sfide della globalizzazione. Oggi, questo modello attraversa una fase cruciale e deve rispondere a domande che non possono più essere ignorate. Occorre dare sostanza al concetto di cittadinanza europea e articolare maggiormente il modello europeo di sviluppo, il che solleva ovviamente la questione dei rapporti tra Stato e mercato e il ruolo dell’Europa in tutto questo. La strategia di Lisbona mira a rendere l’economia europea «più competitiva e dinamica nel mondo, capace di una crescita economica sostenibile con opportunità di lavoro migliori e più numerose e una maggiore coesione sociale».
Questi tre fattori, prosperità economica, coesione sociale e protezione dell’ambiente, e soprattutto le sinergie create dalla loro combinazione, danno al nostro modello di sviluppo la sua forza trainante e la sua originalità. Non illudiamoci, però, che il nostro modello economico e sociale possa durare senza cambiamenti. Il welfare è stata la nostra migliore conquista del secolo scorso. Ma non basta l’orgoglio per vincere la sfida della modernizzazione.

Presidente, si afferma spesso che il problema della sovranità è prima di tutto il problema della capacità di difendere e tutelare gli interessi fondamentali. Che cosa hanno da guadagnare i cittadini europei dalla perdita di una parte significativa della rispettiva sovranità nazionale a vantaggio di quella europea? In che modo un’Europa alla Penelope restituisce agli europei la sovranità che toglie agli Stati? Lei dice spesso che l’Europa può vincere. Ma quali sono in realtà le sfide che deve vincere?

È ormai presente in Europa, tra i governi nazionali così come tra i cittadini e all’interno delle istituzioni comunitarie, la consapevolezza della necessità di riformare profondamente l’Unione e dotarla di una nuova costituzione.
Il sistema comunitario, che ha funzionato egregiamente per cinquant’anni, ha oggi bisogno di essere aggiornato e sono pronto a ribadire con forza quest’impegno: non è possibile andare avanti se ognuno resta fermo sulle proprie certezze.
Il metodo inaugurato dalla Convenzione ha innescato esattamente il processo democratico di cui l’Unione, e i suoi cittadini, hanno bisogno. Prima i negoziati si tenevano a porte chiuse. Ora i governi vengono alla Convenzione e si esprimono alla luce del sole. Essa offre al mondo intero una riflessione pubblica su tutti gli aspetti delle nostre istituzioni, il che conferma in sostanza la volontà di consolidare un’Unione di popoli e di Stati che sia la prima vera democrazia sovranazionale.
La coerenza ci impone però di garantire che tutte le decisioni rispecchino la doppia legittimità dei popoli e degli Stati. Per questo, abbiamo presentato, tra le altre, quattro proposte specificamente volte a una maggiore democrazia: un presidente della Commissione eletto dal Parlamento, una Commissione responsabile sia di fronte al Parlamento che al Consiglio europeo, una procedura legislativa che coinvolga il Parlamento e il Consiglio generalizzando il metodo della codecisione, e infine una procedura di bilancio riformata. A ciò si aggiungono altre misure, quali ad esempio una riforma radicale delle competenze d’esecuzione della legislazione europea. Occorre affidare tali competenze esclusivamente alla Commissione che, ricordo, sarà responsabile dinanzi a entrambi i rami legislativi dell’Unione.
Il nostro contributo alla Convenzione si concentra dunque su istituzioni più funzionali e su un processo decisionale più semplice, veloce ed efficiente.
Soprattutto, dobbiamo sviluppare la dimensione democratica e morale dell’Unione: i cittadini europei hanno bisogno di comprendere appieno e partecipare agli sviluppi del progetto europeo. L’architettura costituzionale della nuova Unione, specialmente all’indomani dell’allargamento, dovrà certamente fondarsi sulla positiva esperienza dei primi cinquant’anni di integrazione europea, ma dovrà altresì essere in grado di affrontare le nuove sfide del terzo millennio, quali la riforma economica e lo sviluppo sostenibile, la lotta contro il terrorismo e la promozione di una governance globale, che nessun Paese europeo può ormai affrontare da solo.

In più occasioni Lei ha preso posizione contro il cosiddetto «pensiero unico», cioè contro la pretesa di avere e soprattutto di imporre certezze basate sull’assoluto del mercato e della concorrenza, senza saper cogliere i contributi del pensiero critico e di tutte le riflessioni che arricchiscono lo scenario di riferimento per le società industriali. Ma perché il pensiero unico perda la sua battaglia per il predominio nelle decisioni occorrerebbe che il pensiero critico sapesse giungere al «potere». Servono leader più intelligenti e più generosi? O nuovi canali istituzionali di confronto? In una certa misura questo è certamente il tema dell’aggiornamento della stessa formula politica parlamentare che però, purtroppo, troppi governanti screditano preferendo la democrazia mediatica e dei sondaggi.


Ho constatato spesso in questi anni che la politica, nella sua pratica concreta, è così irta di imprevisti e di rischi, così lastricata di buone intenzioni perdute e di decisioni sagge poi risoltesi in misure pratiche negative, a volte inique, da farmi concludere che sia necessario un ritorno al dialogo tra etica e politica e a un’azione istituzionale orientata da principi e valori definiti. L’era dei dogmi e del pensiero unico è alle nostre spalle. Gli anni Novanta sono finiti, e con essi sono finite quelle certezze che li hanno caratterizzati, tra cui certamente l’idea di una supposta superiorità degli affari e del mercato sulla politica.

La gente ha capito che non viviamo «nel migliore dei mondi possibili» e che non ci si può illudere su una crescita «senza fine». Del resto, non è il mercato in sé, ma un approccio fondamentalista al mercato che ha portato a eliminare il legame tra ricchezza reale e risorse finanziarie, a farlo coincidere unicamente con la finanza, a oscurarne completamente la funzione sociale. C’è bisogno di sempre più «correttezza» nei comportamenti delle autorità pubbliche e delle imprese e il contesto europeo è adatto e maturo per questo dibattito.

Dobbiamo riflettere sul concetto di mercato, sul Welfare, sullo sviluppo sostenibile. Nelle origini dell’Europa, del resto, il mercato non era un bene assoluto, ma un luogo per favorire le libertà, le interazioni sociali, la conoscenza e il rispetto degli altri. Oggi, la stessa idea di far coincidere strettamente capitalismo e massimizzazione del profitto è ormai inaccettabile. È sempre più evidente che oggi il capitalismo ha bisogno di codici morali che assicurino coordinamento e cooperazione nei rapporti di lavoro, nelle relazioni economiche, nelle transazioni commerciali.

Le istituzioni, anche le istituzioni europee, devono collocarsi in tale ottica, perché tutto questo si ottiene non attraverso generiche invocazioni moralistiche, ma attraverso un nuovo tipo di regolamentazione e un dibattito aperto e democratico. La riflessione pubblica, la società civile, una partecipazione attiva dei cittadini alla definizione delle priorità politiche europee e nazionali devono orientare, più di quanto sia accaduto in passato, l’azione di governo, senza contrapporsi a essa. È da questo che dipende la capacità di costruire un nuovo progetto politico per l’Europa e la capacità dell’Europa di contribuire a una più giusta governance mondiale.

La Carta di Nizza e quindi Penelope, che la riprende, dedica ben 17 articoli al capitolo della solidarietà. Perché è così importante per noi europei?

Porre il principio della solidarietà tra le nostre priorità significa riconoscere l’importanza di lottare, oggi più di ieri, contro l’esclusione sociale e offrire un’alternativa realistica al «pensiero unico» dominato dal mercato. Nella società globalizzata in cui viviamo, il tentativo di arrivare a una gestione e a un controllo democratico dei processi economici è di vitale importanza, in nome dei diritti di tutti i lavoratori. C’è la necessità di ripensare i rapporti all’interno delle comunità e di ricostituire un tessuto sociale sano, attraverso ad esempio interventi specifici nelle periferie delle società europee.

Solidarietà significa anche un sistema di sicurezza sociale efficace e nuovi diritti ai lavoratori. La Commissione promuove in tutte le sue politiche questo punto di vista. Nostro grande cavallo di battaglia è oggi il diritto alla formazione permanente dei lavoratori: non più una semplice opzione, ma l’unica via per permettere al maggior numero possibile di persone di partecipare pienamente e attivamente alla nuova società della conoscenza. Promuovere il cambiamento nell’organizzazione della ricerca e una sua maggiore apertura sono gli obiettivi dello «spazio europeo della ricerca». E sulla mobilità degli studenti, dei docenti e dei ricercatori si può fare di più. Queste sono le vie concrete per evitare nuove forme di frattura ed esclusione sociale.

C’è chi afferma che proprio l’eccessiva indulgenza verso la solidarietà e l’uguaglianza rendono i nostri Paesi non competitivi e un poco attardati su formule insostenibili di tutela e di sostegno generalizzato. Vorrebbero che altrettanto peso e importanza venisse dato al mercato, alla concorrenza e all’impresa. È una vecchia questione economica, ma perché secondo lei riemerge oggi con forza? È solo colpa di un welfare che in crisi o di un ritorno di liberismo e di una certa insofferenza verso tutto ciò che «sa di pubblico»?

Il modo in cui lo Stato oggi assolve ai suoi compiti sta indubbiamente subendo grandi mutamenti. Mentre in passato era lo Stato a garantire servizi di interesse generale, lasciando spesso spazio a monopoli e concentrazioni, oggi è molto di più ciò che viene delegato a imprese pubbliche o private. Lo Stato mantiene essenzialmente il compito di porre le linee politiche generali e di regolare e supervisionare l’erogazione di servizi di interesse generale da parte di altri enti a ciò preposti. Il modo in cui le istituzioni assolvono ai loro doveri nei confronti dei cittadini è cambiato. Tuttavia, il ruolo dell’autorità pubblica resta di enorme importanza ed è proprio nelle sue funzioni di controllo che lo Stato continua a esercitare il potere centrale che gli è proprio.

Ci siamo impegnati perché la gestione del servizio pubblico guadagnasse in trasparenza ed efficienza, anche dal punto di vista finanziario, ma questo che non mette in discussione le priorità del nostro modello sociale. Al contrario, sono fiducioso nelle capacità del sistema di welfare europeo di rinnovarsi per affrontare al meglio i cambiamenti che sicuramente ancora ci aspettano in futuro. È con questo spirito e tenendo ferme queste priorità che gli Stati devono operare per ritrovare competitività a livello economico. Crescita e solidarietà non sono due nozioni incompatibili, ma piuttosto due aspetti complementari di un sistema economico sano.

La posizione di presidente della Commissione europea è unica e difficile. Si tratta di una esperienza di leadership doppiamente trasversale, tra Paesi e tra forze politiche diversi: come ci si orienta e quali sono le difficoltà? Quale tipo di guida deve e dovrà esercitare il presidente per mantenere la collegialità politica della Commissione quando essa riguarderà 25 o 30 Paesi?

La Commissione è un organo politico, in cui le decisioni sono prese collegialmente. Ogni singola decisione è ovviamente preparata da poderosi staff tecnici, vale a dire dai funzionari dei diversi dipartimenti in cui la Commissione è organizzata. Questo consente a coloro che devono assumere l’onere della decisione politica, di disporre di una solida base di lavoro, unica nel suo genere. È vero che molte volte ciò prevede che sul tavolo della commissione arrivino più opzioni, tra cui si deve scegliere. Tuttavia, questo non mi sembra un elemento negativo; al contrario, questo permette al politico di decidere sulla base di una seria e approfondita valutazione della realtà e delle conseguenze della decisione.

Proprio la collegialità può essere un punto di forza della Commissione e non un elemento di debolezza. È un punto di forza ogni volta che essa implica che ogni decisione possa beneficiare dell’apporto di diversi commissari, apporto in termini sia di conoscenze tecniche, che di sensibilità politiche. Dall’esterno si può forse avere l’impressione che quando 15 o più persone sono implicate in un processo decisionale, questo comporti molte discussioni e forse qualche ritardo. Ma dall’interno è più facile vedere come dal contributo di tutti la qualità delle decisioni della Commissione esca rafforzata; in più, la Commissione lavora sulla base di una programmazione a medio termine, e non certo sulla base di iniziative estemporanee.

Che differenza c’è rispetto alla direzione di un governo nazionale, esperienza che lei fece in Italia con il governo dell’Ulivo tra il 1996 e il 1998? Che cosa ha imparato dal confronto?

C’è certamente una notevole differenza tra la guida di un governo nazionale e quella della Commissione europea. La Commissione europea non è, non ancora, un governo europeo comparabile a un’istituzione nazionale. Ma come presidente della Commissione, pur esercitando un minor potere immediato in rapporto a un’esperienza di governo nazionale, si ha tuttavia la sensazione di contribuire alla realizzazione di un progetto storico. Lavorare per l’Europa comporta responsabilità e capacità di guardare oltre i confini, con la consapevolezza di partecipare alla costruzione un progetto nuovo all’interno di una dimensione, sia in termini di impegni che di visione, veramente mondiale. Certo, nel futuro bisognerà oliare ancora di più i meccanismi interni, favorire sempre di più l’interazione non solo al momento apicale di una singola decisione, ma già al momento della preparazione.

Vorrei però sottolineare un altro aspetto: nell’esercizio quotidiano dell’attività di governo, quasi tutte le decisioni che si prendono a livello nazionale sono una ripetizione di altre decisioni; in sostanza, tranne alcuni grandi progetti, a livello nazionale si amministra molto, ma non si innova altrettanto. Al contrario, a livello europeo, quasi tutte le decisioni riguardano nuovi cantieri: pensate alla recente Comunicazione della Commissione sulle relazioni con gli Stati vicini all’Europa dopo l’ampliamento, o alla proposta di direttiva per stabilire delle sanzioni penali contro i responsabili di disastri ecologici quali quelli provocati dall’Erika o dal Prestige sulle coste francesi e spagnoli. In questi e in centinaia di altri casi, la Commissione non si muove su un terreno già battuto, ma deve esplorare nuove piste, essere innovativa, proporre soluzioni che si applichino ai cittadini di 15 (e presto 25) Stati.

Ci può spiegare allora che cos’è l’engagement européen che il progetto Penelope introduce come requisito per i commissari della futura Commissione?

L’esperienza m’ha insegnato che l’esercizio del mandato di Commissario europeo costituisce una missione particolare. Occorre essere capaci di abbandonare i preconcetti che derivano dalla propria origine nazionale e di comprendere le esigenze delle altre realtà di cui si compone l’Unione. Occorre avere uno spirito indipendente, al fine di definire in ogni circostanza l’interesse generale, che non è la somma, ma piuttosto la sintesi degli interessi nazionali. In altri termini, occorre avere un riflesso politico europeo che deve animare costantemente la propria azione.

Nella storia dell’Unione europea, i migliori Commissari sono stati proprio quelli che hanno dimostrato di possedere questo riflesso politico europeo. Trovo assai opportuno che il progetto Penelope lo includa tra le condizioni necessarie di ammissibilità alla funzione di Commissario, traducendolo nel requisito dell’impegno europeo.

Il cittadino europeo, anche quello preparato, difficilmente riesce comunque a capire su quali dati e sulla base di quale processo istruttorio la Commissione decide e in che modo essa arriva al confronto con il Parlamento e con i ministri dei vari Stati. Non sarebbe opportuno, almeno in alcuni casi, rendere più visibile proprio la distinzione fra opzioni tecniche possibili – fase istruttoria – e scelte politiche?

In occasione del mio primo discorso dinanzi al Parlamento europeo, dopo l’investitura formale come presidente della Commissione, indicai come una delle quattro priorità del mio mandato il miglioramento della governance nell’Unione. In effetti, prima ancora che questo divenisse un tema di moda nel dibattito politico e sulla stampa, mi ero reso conto che occorreva riavvicinare i cittadini europei alle istituzioni, attraverso una loro maggiore implicazione nei processi decisionali che dovevano diventare più chiari, aperti ed efficaci.

Credo di poter affermare che, da allora, molto è stato fatto: il Libro bianco sulla governance europea, elaborato nel quadro di una feconda cooperazione con la società civile, ha tracciato le linee direttrici di questo nuovo approccio; le iniziative più specifiche in tema di consultazione del pubblico, di valutazione d’impatto delle proposte legislative, di decentramento della fase esecutiva, di ampia diffusione delle informazioni hanno creato degli strumenti che permetteranno di applicare concretamente i principi della trasparenza, della partecipazione, della responsabilità, dell’efficacia e della coerenza dell’azione dell’Unione.

Il processo di riforma costituzionale – avviato con la dichiarazione di Laeken, proseguito con la Convenzione e che si concluderà con l’adozione della futura Costituzione – consacrerà in maniera definitiva e, spero, ottimale, questo processo di riavvicinamento tra i cittadini e le istituzioni. Mi auguro che, alla fine del mio mandato, nel 2004, i cittadini europei conosceranno meglio l’Unione, i suoi obiettivi, la sua indubbia utilità e saranno maggiormente coinvolti nel funzionamento delle sue istituzioni. Allora, ne sono certo, capiranno di potersi fidare pienamente di questa Unione.

Presidente, il semestre di presidenza italiana dell’Unione è alle porte. Cade in una congiuntura molto delicata, ma di grande importanza. Il governo Berlusconi e la sua maggioranza sembrano aver deciso di voler sfruttare l’occasione anche per far valere di più l’interesse nazionale. Qual è secondo Lei la via maestra da tenere?

La via è molto chiara: è inutile complicarla e renderla tortuosa. Durante la mia esperienza di presidente della Commissione europea, ho sperimentato ogni giorno come l’interesse nazionale italiano risieda in un’Europa unita e capace di affermare la propria voce. Contrapporre Italia e Unione europea non giova né all’una né all’altra. Tentare operazioni improvvisate sarebbe inutile e grave. Gli italiani sanno riconoscere immediatamente la sostanza delle cose e hanno sempre dato il meglio di sé quando hanno capito che si dovevano impegnare per qualche cosa che valeva davvero e che non era improvvisato. Non ci penserei due volte: un’Europa più forte vuol dire un’Italia più forte.


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