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Joschka Fischer, vita di un europeo

Daniele Castellani Perelli

Matthias Geis e Bernd Ulrich, Der Unvollendete. Das Leben des Joschka, Fischer (“L’incompiuto. La vita di Joschka Fischer”), Alexander Fest Verlag, Berlino 2002, pag.256, Euro 24,90

Joschka Fischer, per molti, è già un mito. La BBC gli ha dedicato una lunga monografia in cui lo definisce “il politico più interessante d’Europa”, mentre in Germania l’80% dei suoi connazionali ne approva trasversalmente l’operato. Della vita dell’attuale ministro degli Esteri tedesco si sono occupati già diversi libri, l’ultimo dei quali è L’incompiuto. La vita di Joschka Fischer, in cui gli autori Matthias Geis e Bernd Ulrich, rispettivamente giornalisti di Die Zeit e di Tagesspiegel, raccontano affascinati l’avventura di una vita intensa, di un uomo che negli anni Sessanta occupava la case e oggi è il principale candidato alla poltrona di ministro degli Esteri dell’Europa allargata.

Joschka Fischer, secondo un collega un po’ snob, non era che “un teppista che non sa nemmeno annodarsi la cravatta”. Nato nel Württemberg nel 1948 da un macellaio ungherese, l’irrequieto Joschka visse un’infanzia povera e ribelle. A Francoforte divenne un leader del Putz, l’Unione Proletaria per il terrore e la distruzione, presso cui era noto come “ministro della difesa”. Arrestato un paio di volte, quando alcuni terroristi tedeschi selezionarono i passeggeri ebrei di un Air-France dirottato Joschka percepì quella che avrebbe chiamato “tutta la nostra grande follia”.

Tramontata l’utopia rivoluzionaria, per sei anni Fischer fu tassista a Francoforte, per poi lanciarsi con passione nell’utopia riformista. Entrato nei Verdi, nel 1985 divenne ministro dell’Ambiente (“il primo ministro verde del pianeta”) dell’Assia, esperienza che i radicali del suo partito resero per lui un incubo, ma che avrebbe contribuito non poco alla nascita del mito, grazie ad una foto e a due scarpe da ginnastica, quelle che indossò il giorno del giuramento e che oggi sono esposte in un museo.

Preso il comando di quel partito che non aveva mai amato, vinte le elezioni del 1998, Joschka Fischer divenne ministro degli Esteri, per il semplice fatto che quella poltrona gli apparteneva. Nel 1992, nel libro La sinistra dopo il socialismo, della politica estera europea aveva scritto: “Se non troverà la propria unità, l’Europa ricadrà nella sua antica lacerazione e nei conflitti d’egemonia, nel nazionalismo e nell’odio dei popoli, e verrà dominata dall’esterno”. Unione europea o barbarie, questa già allora la base del suo pensiero.

Da quel 1992, Fischer avrebbe ancora attraversato due fasi. Egli, dicono Matthias Geis e Bernd Ulrich, gli autori de L'incompiuto, non fu mai un pacifista in senso stretto, ma quando il 12 luglio 1995 i serbi assalirono Srebrenica, selezionando i musulmani e conducendoli fuori dall’enclave con un bus per poi ucciderli, Fischer non se la sentì di appoggiare l’invio delle truppe tedesche laddove avevano infuriato, disse, le “soldatesche di Hitler”.

Lo Joschka Fischer ministro degli Esteri, continuano gli auotir, è invece un uomo che si pente di non aver salvato i musulmani bosniaci. In questa seconda fase, che dura tuttora, egli sa realizzare una perfetta sintesi delle sue passate esperienze, mostrando oggi una saggezza trasversalmente riconosciuta (così simile a quella di Adriano Sofri, di cui peraltro è amico) e che si è concretizzata con successo in tre momenti decisivi della politica estera europea degli ultimi anni: la guerra in Kosovo, l’impegno per la pace in Medio Oriente e la missione in Afghanistan.

Nel 1999 Fischer si prese la responsabilità di riportare in guerra la Germania per la prima volta dal 1945, per di più senza mandato dell’Onu. La decisione fu sofferta e non apprezzata da tutti (come il pacifista che al congresso dei Verdi lo colpì all’orecchio lanciandogli una busta di vernice). Per giustificarla venne utile a Fischer proprio l’argomento con il quale aveva rifiutato la missione in Bosnia, ovvero il precedente hitleriano: “Non ho solo imparato: mai più guerre – disse – Ho imparato anche: mai più Auschwitz”.

In Medio Oriente, come già nel Kosovo, egli svolse un ruolo di primo piano, per di più in un momento in cui la sua credibilità era scesa improvvisamente a livelli minimi, a causa della pubblicazione di alcune vecchie foto in cui, con casco e tuta nera, picchiava selvaggiamente un poliziotto, e della contemporanea imbarazzante deposizione al processo contro il terrorista Klein. In un’intervista di quello stesso gennaio 2001, Fischer negò inoltre di aver mai partecipato, da giovane, ad un congresso dell’Olp. Ma delle foto del 1969 lo smentirono clamorosamente. Ne seguì una campagna di stampa diffamatoria, che lo portò quasi alle dimissioni e alla depressione, evitata grazie ad amici come Cohn-Bendit e l’ex Segretario di Stato americano Madeleine Albright, che gli disse: “Sapevo che eri un cattivo ragazzo, ma non così cattivo: interessante”.

A fine maggio era a Tel Aviv quando un kamikaze si fece esplodere in una discoteca sulla spiaggia, uccidendo 22 giovani e ferendone quasi cento. Furono giorni terribili, raccontano Geis e Ulrich, in cui Fischer non si fece condizionare né da quelle foto appena pubblicate né dal suo essere tedesco: parlò con Sharon, spiegò alla tv israeliana che quei giovani morti avevano la stessa età dei suoi figli, e ciononostante fu ottimo interlocutore di Arafat.

In occasione della missione in Afghanistan, Fischer dovette poi ancora una volta vincere l’ostilità del proprio partito, perché mancato consenso avrebbe portato ad una crisi di governo. “Non esiste una politica estera verde, ne esiste solo una tedesca”, si sfogò, e confermò la linea filoamericana bipartisan che era stata di Adenauer, Brandt, Schmidt e Kohl. Il rapporto di Fischer con gli americani, e Colin Powell lo sa, è un rapporto leale, tanto che gli stessi statunitensi, a poche settimane dall’11 settembre, chiesero proprio a lui di andare in Iran a spiegare il senso della coalizione anti-terrore, e tanto che il New York Times lo definì allora come un politico “dall’alta reputazione di filoamericano”.

Se oggi si è schierato contro la guerra in Iraq, puntualizzano Geis e Ulrich, non è stato per calcolo economico o per nazionalismo, ma perché il suo pragmatismo si nutre ancora di valori e di passione. Il suo rapido riavvicinamento all’America, dopo la battaglia del Palazzo di Vetro, non è opportunistica debolezza, ma la volontà di non perdere mai di vista la forza e la politica, perché egli, come scrivono Geis e Ulrich, “si trova a casa ovunque si tratti di Potere”. Egli sa che l’amata Europa non deve inimicarsi gli Stati Uniti, perché sono oggi troppo potenti, e Fischer non è tipo da combattere contro i mulini a vento.

La biografia di Matthias Geis e Bernd Ulrich si lascia leggere con piacere, per la serena brillantezza della scrittura e per l’onestà con cui i due autori ammettono la loro ammirazione verso il personaggio ma, senza lusinghe, non nascondono nulla della sua storia. Le molte foto restituiscono il senso dell’avventura, alternando gli occhialoni dell’adolescente con i ritratti “cheguevariani” del periodo francofortese, l’estrema pinguedine delle vacanze toscane con l’asciutta severità del maratoneta di New York.

Il Tageszeitung ha lodato gli autori per aver letto la vita di Fischer non alla luce di una possibile coerenza delle idee, ma alla luce del rapporto tra Fischer e il Potere e l’esperienza di sé. L’unico punto critico, relativo alla domanda se egli sia o meno un opportunista, suona in realtà come retorica. Di Fischer ci si può fidare, perché la sua Realpolitik non è mai né amorale né fine a se stessa. Fischer il pragmatico e Fischer il metafisico, colto in una recherche inquieta che passa attraverso un continuo movimento (anche di donne e di peso) che oggi lo porta ad una solida visione fondata su due punti fermi: l’Europa e la Realpolitik (che lo fa “cardinale tra i vescovi”, “Senatore americano quando è alla Casa Bianca”, e sempre abitante della “stratosfera della diplomazia”).

Dell’Europa disse, in un celebre discorso all’Università Humboldt, che deve essere unita e forte, anche militarmente, ma che anzitutto non deve essere percepita come uno Stato lontano e burocratico: “I cittadini non devono amare l’Europa, e neppure volerla. Basta che la accettino”.

Stimato dagli amici e rispettato dai nemici, europeista convinto ispirato alla concezione globale del Potere di Henry Kissinger, secondo Geis e Ulrich nella sua miracolosa sintesi di Realpolitik e passione la politica estera europea Fischer potrebbe trovare una soluzione alla sua crisi. La sua coraggiosa indipendenza non è venuta meno né in occasione delle proteste degli antiamericani del suo partito per le missioni in Kosovo e in Afghanistan, né quando in febbraio, durante un incontro ufficiale, smise improvvisamente di parlare in tedesco e, in perfetto inglese, improvvisando spiegò chiaro e tondo ad un gelido e imbarazzato Rumsfeld perché la maggioranza dell’Europa rifiutava la guerra.

Joschka Fischer dovrà divenire ministro degli Esteri della nuova Europa allargata, dicono gli autori del saggio tedesco, semplicemente perché quella poltrona gli appartiene. Solo allora, forse, avrà termine l’avventura dell’“Incompiuto”.

 

 

 

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