Venezia
è mia meta, ogni anno che passa. Ci vado, al
di là di qualche improvvisata occasione, per
la Mostra del cinema al Lido. Ma ci sono anni in cui
il mio viaggio nella Laguna si arricchisce di un appuntamento
altrettanto importante, altrettanto carico di suggestioni.
Almeno per quanto riguarda le aspettative. Questo
appuntamento è la Biennale d'Arte o meglio,
come suona il titolo ufficiale, la Esposizione Internazionale
d'Arte.
Il 2003 è l'anno che incornicia la cinquantesima
volta della Esposizione e, certo, non potevo sottrarmi
al viaggio che è poi, come si vedrà,
una sorta di pellegrinaggio nel bazar che occupa le
isole veneziane da giugno a novembre. Bazar non è
una definizione mia, viene dai titoli e dagli articoli
di giornali che da molto tempo in qua si struggono
per desiderio e per dovere nel gioco pericoloso delle
rapide, significative, emblematiche definizioni. Oltre
a bazar, le definizioni dell'Esposizione corrono liberamente
e disinvoltamente tra foresta, megalopoli, caos, buffet
multimediale, eccetera, eccetera.
Come ci si può attrezzare per godere al massimo
della conquista di Venezia e del suo fascino da show
room delle acque, nonostante le barriere dei vaporetti
e di infiniti ponti affollati? Come deve prepararsi
un visitatore munito di una semplice curiosità
verso i misteri vecchi e nuovi dell'arte e di una
sensibilità magari affinata da qualche salto
nelle centrali culturali d'Europa per aggiornarsi
sulle tendenze che vale la pena avvicinare e conoscere?
Reduce da anabasi e ritirate strategiche, nel corso
degli ultimi decenni, credo che si possa adottare
il metodo suggerito indirettamente dal titolo di un
libro di John Fante, italoamericano diventato scrittore
di successo dopo molti anni di gattabuia nel dimenticatoio
delle letterature. Il titolo è Chiedi alla
polvere. Il romanzo racconta di fatti e di personaggi
lontani da quelli dell'arte contemporanea, ma ha il
pregio di poter essere virato a comodo strumento di
lettura "anche" di quella avventura curiosa, a metà
fra lo sbigottimento e la sorpresa, che caratterizza
l'andare per Laguna verso l'Esposizione detta comunemente
Biennale.
Il viraggio riguarda le nostre estremità inferiori,
le nostre leve che si vanno coprendo di polvere nel
trasferirsi da un luogo all'altro in cui si articola
la Biennale, sempre più scrupolosa nel mettere
impegno per non farsi sfuggire neanche la più
invisibile zanzara nella ronzante produzione artistica
mondiale. Polvere che si stratifica a poco a poco,
passando da Museo Correr a Piazza San Marco, ai classici
Giardini della Biennale, alle Corderie dell'antico
Arsenale navale. Acqua e polvere, elementi pronti
a mescolarsi e a farsi fango su cui si possa invocare
il soffio divino della creatività.
Seguendo un itinerario consigliato dalla giudiziosità
organizzativa, per la Biennale numero Cinquanta ho
cominciato dal Museo Correr dove è stata allestita
una delle mostre, "Pittura/Painting- Da Rauschenberg
a Muratami 1964-2003". Ho salito le ampie scale del
Museo Correr e mi sono trovato di fronte ad un'antologia
che si mantiene lontana, volutamente, dal tema generale
della Biennale '50, inventato da Francesco Bonami,
responsabile del settore artistico della istituzione
veneziana: "Sogni e conflitti- La dittatura dello
spettatore". Qui, al Correr, i sogni e conflitti sono
stemperati in un periodo che comincia quarant'anni
fa e arriva ai nostri giorni con il passo cadenzato
della storie e delle scelte già compiute. Al
riparo perciò dalle controversie e dai confronti
che accendono le incertezze, o le certezze, dei profeti,
dei maestri lettori della contemporaneità.
O meglio, credevo che l'antologica, messa su con tutta
probabilità per dare al visitatore un orientamento
difficile e tuttavia utile, potesse essere esente
da critiche pesanti. Mi sbagliavo. Bonami ha ricevuto
le sue brave rampogne per questa o quella omissione,
per genericità e per ovvietà commesse.
Ho chiesto alla polvere raccolta camminando sulle
scale e nelle fresche sale del Correr e ci siamo trovati
d'accordo. Mi ha detto che non avevo tutti i torti
a pensare che, in mezzo agli americani pacifici occupanti
di tante zone del territorio degli anni suddetti,
poteva sembrare stonata la presenza di un grande,
realistico quadro di Renato Guttuso, "La Vucciria".
C'erano pur sempre amicizie estetiche da rivedere
con piacere come le opere dei tedeschi Gerhard Richter
e Anselm Kiefer, dell'irlandese Francis Bacon, dell'italiano
Francesco Clemente.
Europei che, si fa per dire, hanno imparato la lezione
e anzi l'hanno a loro volta impartita. Nomi noti,
persino troppo noti per gli edotti per partito preso
o per gli annoiati di overdose della contemporaneità.
Artisti che la luce di un'antologica ripropone come
in un album che assume qualità della memoria
che si aggiungono a quelle del risultato artistico
in assoluto.
Insomma, mi sono sentito trascinato in una fascinazione
non banale, fondata sulla conoscenza, che mi ha ricordato,
migliorandole, le emozioni provate a Londra nella
nuova ala della Tate Gallery dedicata ai contemporanei.
Segni di un passato prossimo che non sono diventati
reperti. Segni di un assemblaggio di diversità
che riescono a comporre, grazie al Novecento appena
trascorso, un lieve bilancio nelle nebbie delle ideologie
politiche, ideologie cui non è stata immune,
anzi, tutta l'avanguardia del secolo di morte e di
illusioni che abbiamo lasciato alle spalle.
Mi prendo un intervallo dopo il Correr. Il sole è
alto e mi avvio verso la seconda tappa: le Corderie.
Ci si arriva dopo un quarto d'ora di strada dura di
sasso e di salita per via di ponti e ponticelli. L'ingresso
nelle sale espositive, ricavate da secolari fabbriche
e magazzini, è disturbato dai lavori sul canale
davanti all'Arsenale che se ne sta lì, impalato
nel suo splendido decoro, a fare la guardia alle sale
che fanno assegnamento sulle screpolature, gli inciampi,
le pareti scrostate, i tetti sconnessi perchè
l'arte dell'oggi venga stretta dall'abbraccio caldo
e protettivo che era utile nella Venezia dei Dogi
e che adesso è diventato una bellissima archeologia
sventrata.
Entro nelle Corderie anch'io con i miei piccoli sogni
di spettatore non specializzato E non sono solo perchè
la presenza del pubblico è rilevante, nonostante
il caldo e i disagi nei trasferimenti e nei transiti.
Cerchiamo quel volto della pace che è fatto
di dubbi e di interrogativi, quelli che devono appartenere
alla sfera dell'arte, senza venire accompagnati da
miccia e polvere da sparo.
Francesco Bonami ha fatto le cose con scrupolo, avvalendosi
dei contributi di altri esperti. La sezione "Ritardi
e rivoluzioni"è firmata insieme a Daniel Birbaum.
Sotto il titolo generale "Sogni e conflitti- La dittatura
dello spettatore", la sezione fa da postazione di
comando a tutto il resto, dai Giardini, di cui parlerò
più avanti. Come "Zona", che è curata
da Massimiliano Cioni.
Le Corderie ospitano, come ha scritto Anna Detheridge,
non più solo giovani promettenti come dieci
anni fa ma di fatto anche opere di serie B. Ed ecco
Bonami, direttore supremo, distribuire copiosamente
le tante opere fra titoli e responsabilità.
"Clandestini" se la riserva Bonami stesso. Mentre
"Smottamenti" tocca a Gilane Tawadros e "Sistemi individuali"
a Igor Zabel. "Z.O.U./ Zona d'urgenza" è curata
da Hou Hanru, ''La struttura della crisi" da Carlos
Basualdo, "Rappresentazioni arabe contemporanee" da
Catherine David, "Il quotidiano alterato" da Gabriel
Orozco, "Stazione Utopia" da Molly Nesbit, Hans Ulrich
Obrist, Rirkrit Tiravanija. Fra una sezione e l'altra,
tanti Interludi, spesso composti da una sola immagine,
una istallazione, una composizione di vari elementi
(ad esempio, due giovani che guardano un passaporto
gigante - un simbolo che ritroveremo come tormentone
costante ai Giardini - intitolato ad una nazione apolide,
la Palestina).
Ho voluto fare l'elenco delle varie parti della esposizione
alle Corderie e ricordare i nomi dei curatori per
sottolineare la eterogeneità studiata della
proposta complessiva e per indicare, fin da titoli,
la risonanza dei temi e delle idee che corrisponde
a quella obbligatoria- indispensabile?- tendenza ad
aggrapparsi a un senso fallimentare di vuoto e di
ricerca ansiosa che domina il mondo dell'arte. I testi
predisposti dai curatori per spiegare le loro scelte
e simpatie, non solo introducono e commentano, ma
vanno oltre: inseguono gli angoli più oscuri
e le linee contorne della crisi generale. Se no, perchè
parlare di smottamenti, crisi, sistemi individuali
contrapposti a sistemi collettivi, zone d'urgenza?
L'allarme squilla di continuo, ma il suono sembra
di averlo già sentito e arriva come attutito.
Ci sono tante cose da vedere in questa distesa, e
articolata, esposizione che mi è parsa subito
simile ad una sorta di enorme millepiedi intento a
segnare il passo nelle sale precarie e puntellate
delle Corderie. Non basta. C'è anche il fatto
che il millepiedi, così ho creduto di vedere,
talvolta si gira sulla schiena e le sue zampette fendono
l'aria, impotenti, suggestivamente intente a fissare
trame nell'aria. E' il millepiedi dell'arte o dell'aggressiva,
invincibile, tassativa legge non scritta dell'avanzata
imperiale della globalizzazione?
L'America del Nord si presenta ormai regolarmente
come il backstage dei lustrini della pubblicità,
del consumo, dei miti popolari, e si trascina dietro
l'Asia, specie il Giappone e la Cina. L'Europa, invece,
si mette alla finestra del mondo, costretta a guardare
i morti e le stragi che ha in casa, a cominciare dai
dieci anni di conflitti nella ex Jugoslavia e dalle
"battaglie" ai confini, su mare, fra le guardie di
frontiera e le truppe di disperati della migrazione
incessante.
In tutti casi, il panorama sembra privo di autori
capaci di incidere in profondità, diciamolo
pure, con franchezza: di farsi ricordare. L'arte è
il millepiedi che non si muove e zampetta all'aria,
eppure qualcosa di inedito e di curioso s'insinua
nella massa di cose che sono state allineate (l'idea
di partenza era quella di selezionare "nella" massa
ed invece la selezione ha prodotto, forse per eccessiva
generosità, forse per una forza intrinseca
complessiva che si imponeva, una nuova massa).
E' curioso che le rassegne internazionali abbiano
sentano il bisogno di rifarsi al pubblico, agli spettatori
comuni. Bonami cita la "dittatura dello spettatore",
a Documenta di Kassel in Germania si è parlato
di "centralità dello spettatore"; qui a Venezia
in passato Harald Seezman si è rivolto a una
"platea dell'umanità". Se ne può forse
dedurre un atteggiamento che chiama in causa una sorta
di prepotenza astratta, quella appunto dello spettatore,
il quale non sa quello che vuole, non è in
grado di privilegiare questa o quella opera, questo
o quell'artista, ma comunque accetta di partecipare
e di vedere.
In questo senso, la "dittatura" dello spettatore sembra
risolversi in una richiesta di luna-park luccicanti
dove ci sia posto per tutto. Anche per la paura, la
miseria, la violenza. Il dominio autoritario dello
spettatore deriverebbe, così, dalla sua ormai
consapevole abitudine all'universo della immagini,
comprese quelle virtuali, per cui chiederebbe ai direttori
e ai curatori delle rassegne soprattutto effetti speciali;
e viene infatti accontentato.
Eppure, il luna-park offerto dalla Biennale è
insolito perchè le sorprese sono poche e ognuno
se le suggerisce a seconda della sua sensibilità
o insensibilità. La mia polvere risponde annotando,
nella sezione "Clandestini", un corridoio senza fine,
illusionistico, fatto di prospettive alterate, proposto
dalla polacca Monica Sosnowska che è, a sua
volta, una metafora del cammino senza esito, chiuso
in se stesso, della Biennale e dell'arte contemporanea.
L'italiano Flavio Favelli ci propone di salire su
un improbabile palco per stordirci di parole soffocate
da strutture situate a cavallo fra il pulpito, la
scena, la tribuna della politica. Il rumeno Mircea
Cantor ci apre una scatola di fiammiferi con due estremità
infiammabili, piccoli mostri a due teste, a rappresentare
i piccoli e grandi incendi che siamo in grado di appiccare
per dare e darci fuoco.
Nella sezione "Smottamenti", l'opera che mi ha colpito
di più è quella dell'ugandese che vive
e lavora in Europa ,Zarina Bhimji, intitolata "Abbaiando
come cani, ho ingoiato aria solida". Rappresenta un
gruppo di ventilatori finiti sul pavimento, schiantati
come elicotteri abbattuti, sospiri di vento resi obsoleti
e soffocati da chi ha abbaiato per farsi sentire e
ha respirato lo smog della grandi città del
nostro continente.
Della sezione "Sistemi individuali" m'è rimasto
il segnale di umiltà che viene da un gruppo
di artisti americani che ci introducono al segreto
di un artista fuori dal lavoro: figure che si aggirano
in spazi seminati di tavoli, con lo sguardo basso
e un po' cupo. Mo ha conservato anche negli occhi
un lavoro di Luisa Lambri, una sorta di tapparella,
di veneziana dalla quale non filtra alcuna luce, alcun
segnale di un'esistenza che venga da fuori, da un
al di là a portata del proprio sguardo frustrato.
Le prigioni possono avere pareti leggere come fogli
di carta o di plastica.
Via
via, alle Corderie il voyeurismo diventa marcia nella
giungla e il machete dello sguardo rischia di spuntarsi
per overdose di visioni, fra sogni, conflitti e incubi.
Per cui, saltando sezioni e passaggi, mi viene incontro
una immagine fotografica della milanese Paola Pivi.
O credo che mi venga incontro, perchè l'immagine
è quella di un docile somarello che se ne sta
in piedi in una barca di plastica che si specchia
nel mare fermo e pulito.
Lo sguardo del somarello mi rimanda a quello di Balthazar,
l'asino dell'omonimo film del grande Robert Bresson,
il regista francese che amava le misure semplici,
le storie fatte di tocchi e sentimenti quasi invisibili
eppure potenti. Il titolo completo del film è
Au hasard Balthazar, intraducibile, anche se
qualcuno ci ha provato e ha trasformato quell'"hasard"
in "alla ventura", una traduzione che spegne titolo
e film. Ecco. In questa arte che va "au hasard", gli
artisti sono anch'essi dei Balthazar che riproducono
nella quiete di una creatività che non cede,
nella sorta di rassegnazione attiva che li obbliga
a lavorare, il destino di un paziente asinello stretto
fra organizzatori, critici, finanziatori, collezionisti,
spettatori?
Apiedi raggiungo i Giardini e m'infilo nei padiglioni,
uno dopo l'altro, un rosario di talenti che si sgrana
tra le riproduzioni di passaporti che sono dispersi
nel parco, passaporti grandi come persone che sembrano
specchi su cui spiccano le scritte dei paesi di provenienza,
molte portano la dicitura Unione Europea ben in vista.
La caligine di noia si addensa. Ma a questo proposito
mi succede una cosa strana, come quando assisto ad
uno spettacolo di Luca Ronconi, uno di quelli che
durano ore e ore, tentando di restituire i tempi reali
di un'azione. A poco a poco l'incombere della noia
non favorisce il sonno - che, secondo l'Ennio Flaiano
critico teatrale, è la condizione migliore
per lo spettatore - ma rompe il muro dell'attenzione
e crea autostrade ma anche vicoli o calli del tutto
personali. E' la rivincita dell'antagonismo del singolo
rispetto al rito collettivo e alle sue regole. Ne
esce una energia rigenerata e riposata.
Mi affido a questa energia e, così riattrezzato,
entro in nuovi contatti. Mi accorgo che i deliri appassionanti,
gli effetti speciali, il luna-park non ci sono più.
L'ordine dei padiglioni sembra il frutto di una disciplina
sorvegliata che evita i proclami pensosi e chiassosi,
le provocazioni per assemblaggio di contrasti, le
altisonanti o altezzose dichiarazioni di principio,
e che sceglie una navigazione in Laguna più
verticale e compassata.
Influenze europee reciproche. L'austriaco dal nome
italiano Bruno Giricondoli fonde su un piano di legno
un altare con Madonna e una scopa per casa, come dire
sacralità al confronto con un iperrealismo
scherzoso imparato magari in America. Il danese Olafur
Ellasson propone una sorta di imitazione di muro di
Berlino costellato di specchi che paiono gli schermi
di televisori dimessi. Qui l'installazione con le
sue metafore inghiotte il regno delle immagini domestiche.
Il tedesco Martin Kippenberger si diverte e ci diverte
con una griglia a livello di strada, una di quelle
prese d'aria per le metropolitane da cui esce il rumore
dei treni, e l'intitola "Hotel", seconda o terza casa
per i pendolari di città. L'Italia, fra altre
opere, presenta "Giravolte" di Carola Spadoni, un
lungometraggio: il film cattura il gusto visivo, e
ancora una volta si realizza lo scambio arte e cinema.
La norvegese Pristina Braein ci offre con la sagoma
di un pianoforte a coda senza gambe coricato, in cui
sono esposti con ordine una radio portatile, scarpe
e oggetti vari fra cui asciugamani e creme per la
pelle - titolo dell'istallazione "Strategia della
sopravvivenza - un uso della musica come ricordo lontano,
come eco, in un tempo in cui lo spazio è occupato
dalle tecniche di riproduzione e dagli oggetti. Tutte
cose che siamo condannati a portare con noi anche
cercando strategie per tirare avanti.
Insomma, la carovana di idee, suggerimenti, ipotesi
dei Giardini aggiusta il tiro e si raccomanda come
itinerario meno esasperato di quello esposto alle
Corderie. La regia di Bonami la si vede proprio in
questo alternare scene di grande movimento, persino
rapide o furibonde zoomate, nel film senza finale
che gli premeva di proiettare. La drammaturgia, sincopata,
è più recepita che imposta. Quando l'arte
sembra un'anguilla tra le mani degli addetti ai lavori,
è giusto che si scelga la strada di un intreccio
fra parti diverse per mostrare che comunque l'arte
c'è e la si può chiudere per alcuni
mesi nelle lingue di terra strappate all'acqua, appunto
Venezia, che ritrova in questo modo l'alibi di continuare
a fare da porta agli andirivieni.
E' una realtà di fatto sufficiente? Risiede
qui, nella ripetizione di una magia prevalentemente
di cornice, la fortuna della Biennale? Caro lettore,
caro spettatore (che abdica volentieri alla dittatura),
chiedi alla "tua"polvere, se deciderai di partire
da dove sei
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redazione@caffeeuropa.it