232 - 19/07/03


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Fuori da questi poli, Segni ci riprova
Antonio Carioti

I sardi hanno la testa dura. E Mario Segni non fa certo eccezione. Protagonista di un'esaltante stagione referendaria (anche se forse eccessivamente enfatizzata dai media) nel periodo 1991-93, poi ha dovuto ingoiare bocconi amari, ma non si é mai arreso.
La sua alleanza con il Partito popolare, nel 1994, venne stritolata nella tenaglia tra il Polo berlusconiano e i progressisti. Ben presto i suoi fedeli del Patto per l'Italia si dispersero: chi in Forza Italia (Alberto Michelini) chi nell'Ulivo (Gianni Rivera). Poi l'effimera alleanza di Segni con Gianfranco Fini sotto l'insegna dell'Elefantino, alle europee del 1999, sfociò nella più grave emorragia di voti mai subita da An. Peggio ancora andò il progetto di abrogare per via referendaria la quota proporzionale della Camera: due consultazioni consecutive, nel 1999 e nel 2000, naufragarono miseramente per mancanza del quorum. Così Mariotto si é procurato pure una certa nomea di menagramo, marchio terribile in un Paese barbaramente superstizioso come l'Italia.

Eppure ancora adesso il deputato europeo di Sassari, figlio di un capo dello Stato, ha la forza d'animo per rimettere in piedi il suo Patto e lanciare il guanto della sfida, convinto che ci sia lo spazio per una formazione moderata alternativa alla sinistra, ma estranea a un centrodestra rissoso e impacciato dal conflitto d'interessi. Il 21 giugno ha riunito a Roma, in un teatro Eliseo discretamente gremito, la convenzione costituente del nuovo movimento. E il prossimo appuntamento é per la conferenza programmatica, che si terrà a Milano nei giorni 17 e 18 ottobre.

Dalla sua parte, Segni ha l'insoddisfazione crescente che serpeggia nella Casa delle libertà, soprattutto per la gestione accentrata e leaderistica della coalizione. Candidature paracadutate dall'alto, scarsa considerazione per le istanze della base, acquiescenza verso le pretese dei leghisti, attenzione ossessiva alle vicende giudiziarie sono solo alcuni dei fenomeni che allontanano militanti ed elettori. La disfatta subita in Friuli, regione storicamente dominata dai moderati, é solo il segnale più vistoso di una deriva preoccupante per l'alleanza nata intorno a Silvio Berlusconi. Quasi tutti i quadri confluiti nel nuovo Patto di Segni, a cominciare dal suo luogotenente Carlo Scognamiglio, ex presidente del Senato, vengono dai ranghi del centrodestra.

Tuttavia a rendere ardua, forse disperata, la scommessa del leader sardo é proprio la dinamica, a lui tanto cara, del sistema bipolare. Finché gli elettori percepiranno l'immagine semplificata (e accreditata non certo disinteressatamente dai mass media berlusconiani e debenedettiani) di una competizione politica ridotta al duello tra il Cavaliere e i postcomunisti, le terze forze avranno vita grama. Se ne sono accorti nel 2001 Antonio Di Pietro, Sergio D'Antoni ed Emma Bonino, schiacciati dal meccanismo implacabile del maggioritario uninominale.

Solo Bossi, nel 1996, riuscì ad imporsi correndo da solo, ma proprio perché trasmise un messaggio di forte delegittimazione del sistema bipolare, affermando che Roma-Polo e Roma-Ulivo si equivalevano di fronte all'unica alternativa rappresentata dal secessionismo padano. Invece Segni da una parte rivendica il merito di aver introdotto in Italia il bipolarismo, che continua a esaltare come una conquista positiva, ma dall'altra pretende di eluderne la regola ferrea, che impone di schierarsi da una parte o dall'altra.

Si tratta di un atteggiamento idealista che suscita un'istintiva simpatia, ma non ha grandi possibilità di sfondare. Più saggia e accorta, anche se in odore di opportunismo, appare invece la strategia di segno contrario scelta dall'Udc di Pierferdinando Casini e Marco Follini, due uomini il cui orientamento ideologico coincide in sostanza con quello di Segni. Mentre il Patto teorizza il bipolarismo sul piano ideologico e poi lo contraddice nei fatti presentandosi da solo, l'Udc non nasconde di preferire il proporzionale, ma si adatta ai meccanismi del maggioritario per acquisire visibilità e spazio politico.

Non é detta che il pragmatismo debba sempre prevalere sull'intransigenza, ma certo le forze aggregate da Segni non paiono all'altezza delle sue dichiarate ambizioni. Sarebbe bello veder nascere un centrodestra "normale", emancipato dall'ipoteca del conflitto d'interessi, come quello che immagina il leader sardo. Ma nella gara per dare un punto di riferimento stabile al moderatismo di ascendenza democristiana, per adesso appaiono nettamente in vantaggio Casini e Follini.


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