I
sardi hanno la testa dura. E Mario Segni non fa certo
eccezione. Protagonista di un'esaltante stagione referendaria
(anche se forse eccessivamente enfatizzata dai media)
nel periodo 1991-93, poi ha dovuto ingoiare bocconi
amari, ma non si é mai arreso.
La sua alleanza con il Partito popolare, nel 1994,
venne stritolata nella tenaglia tra il Polo berlusconiano
e i progressisti. Ben presto i suoi fedeli del Patto
per l'Italia si dispersero: chi in Forza Italia (Alberto
Michelini) chi nell'Ulivo (Gianni Rivera). Poi l'effimera
alleanza di Segni con Gianfranco Fini sotto l'insegna
dell'Elefantino, alle europee del 1999, sfociò
nella più grave emorragia di voti mai subita
da An. Peggio ancora andò il progetto di abrogare
per via referendaria la quota proporzionale della
Camera: due consultazioni consecutive, nel 1999 e
nel 2000, naufragarono miseramente per mancanza del
quorum. Così Mariotto si é procurato
pure una certa nomea di menagramo, marchio terribile
in un Paese barbaramente superstizioso come l'Italia.
Eppure ancora adesso il deputato europeo di Sassari,
figlio di un capo dello Stato, ha la forza d'animo
per rimettere in piedi il suo Patto e lanciare il
guanto della sfida, convinto che ci sia lo spazio
per una formazione moderata alternativa alla sinistra,
ma estranea a un centrodestra rissoso e impacciato
dal conflitto d'interessi. Il 21 giugno ha riunito
a Roma, in un teatro Eliseo discretamente gremito,
la convenzione costituente del nuovo movimento. E
il prossimo appuntamento é per la conferenza
programmatica, che si terrà a Milano nei giorni
17 e 18 ottobre.
Dalla sua parte, Segni ha l'insoddisfazione crescente
che serpeggia nella Casa delle libertà, soprattutto
per la gestione accentrata e leaderistica della coalizione.
Candidature paracadutate dall'alto, scarsa considerazione
per le istanze della base, acquiescenza verso le pretese
dei leghisti, attenzione ossessiva alle vicende giudiziarie
sono solo alcuni dei fenomeni che allontanano militanti
ed elettori. La disfatta subita in Friuli, regione
storicamente dominata dai moderati, é solo
il segnale più vistoso di una deriva preoccupante
per l'alleanza nata intorno a Silvio Berlusconi. Quasi
tutti i quadri confluiti nel nuovo Patto di Segni,
a cominciare dal suo luogotenente Carlo Scognamiglio,
ex presidente del Senato, vengono dai ranghi del centrodestra.
Tuttavia
a rendere ardua, forse disperata, la scommessa del
leader sardo é proprio la dinamica, a lui tanto
cara, del sistema bipolare. Finché gli elettori
percepiranno l'immagine semplificata (e accreditata
non certo disinteressatamente dai mass media berlusconiani
e debenedettiani) di una competizione politica ridotta
al duello tra il Cavaliere e i postcomunisti, le terze
forze avranno vita grama. Se ne sono accorti nel 2001
Antonio Di Pietro, Sergio D'Antoni ed Emma Bonino,
schiacciati dal meccanismo implacabile del maggioritario
uninominale.
Solo Bossi, nel 1996, riuscì ad imporsi correndo
da solo, ma proprio perché trasmise un messaggio
di forte delegittimazione del sistema bipolare, affermando
che Roma-Polo e Roma-Ulivo si equivalevano di fronte
all'unica alternativa rappresentata dal secessionismo
padano. Invece Segni da una parte rivendica il merito
di aver introdotto in Italia il bipolarismo, che continua
a esaltare come una conquista positiva, ma dall'altra
pretende di eluderne la regola ferrea, che impone
di schierarsi da una parte o dall'altra.
Si tratta di un atteggiamento idealista che suscita
un'istintiva simpatia, ma non ha grandi possibilità
di sfondare. Più saggia e accorta, anche se
in odore di opportunismo, appare invece la strategia
di segno contrario scelta dall'Udc di Pierferdinando
Casini e Marco Follini, due uomini il cui orientamento
ideologico coincide in sostanza con quello di Segni.
Mentre il Patto teorizza il bipolarismo sul piano
ideologico e poi lo contraddice nei fatti presentandosi
da solo, l'Udc non nasconde di preferire il proporzionale,
ma si adatta ai meccanismi del maggioritario per acquisire
visibilità e spazio politico.
Non é detta che il pragmatismo debba sempre
prevalere sull'intransigenza, ma certo le forze aggregate
da Segni non paiono all'altezza delle sue dichiarate
ambizioni. Sarebbe bello veder nascere un centrodestra
"normale", emancipato dall'ipoteca del conflitto d'interessi,
come quello che immagina il leader sardo. Ma nella
gara per dare un punto di riferimento stabile al moderatismo
di ascendenza democristiana, per adesso appaiono nettamente
in vantaggio Casini e Follini.
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